Di Stefano capone,
Mangio praticamente ogni giorno pesce locale.
Ogni mattina passo in pescheria.
E ogni volta esco con la mia busta.
Ogni volta diversa.
La mia busta va con le stagioni. E non è mai vuota.
E spendo poco. Certamente non più di chi è convinto che anche in una città di mare sia più conveniente nutrirsi di diafane fettine di qualche bovino dopato.
Spendo poco e mangio bene.
Conosco il pesce di mare.
Mi piace.
E se capita lo pesco. Trabocco senza mare.
Vivo in una città dove il pesce non è un’eccezione. È la normalità.
Ed è normale saperne e disquisirne.
Ricamare i nomi delle varie specie tra i dittonghi del dialetto.
E scegliere tra le cassette di pesce ancora saltellante.
Vivo in un posto dove la pesca è cosa antica.
Una costa, quella dei trabocchi, dove ognuno di noi almeno una volta ha messo le mani nell’acqua docile per tirarne fuori qualche prezioso frutto.
I trabocchi, appunto.
Le antiche macchine da pesca di questo pezzo di Adriatico centrale.
Diaboliche e poetiche.
Infernali dedali di corde e reti. Protesi sempre verso il pezzo giusto di orizzonte. trabocco senza mare
Oggettivamente emozionanti a vederli e a saperli ancora qui dopo tanto.
Per chi vive da queste parti sono cosa intima. Famigliare.
Motivo di appartenenza e, diciamolo, di una sorta di orgoglio.
Da quando i traboccanti veri e propri non ci sono più, ossia i trabocchi non funzionano da macchine da pesca, il loro recupero è passato spesso attraverso la trasformazione in piccoli ristoranti sospesi sul mare.
Niente di male, anzi… irresistibile attrattiva per il turista… auspicabile possibilità di mangiare del buon pesce km 0 in un bel posto per il diffidente avventore locale.
Metà di ottobre. trabocco senza mare.
I banchi delle pescherie sono pieni di pesce fresco.
È tempo di polpi e di seppie.
Le orate di mare, non allevate, brillano nelle cassette.
È i momento delle mazzancolle, degli scampi.
Triglie di ogni taglia rosseggiano saporite.
Le canocchie sono piene e vibranti.
E sogliole, gallinelle, merluzzi, frittura di paranza, tracine, lucerne.
Di pesce ce n’è. Abbondante e abbordabile.
Abbiamo temporeggiato un po’, ma è il momento giusto per tornare a provare un ristorante su un trabocco già provato in passato con alterni risultati ma senza tonfi eccessivi.
Poi, a un posto così una terza possibilità si deve dare.
Peraltro è martedì. Giorno migliore in assoluto per avere pesce fresco.
Primo giorno di pesca della settimana.
Per non rischiare chiediamo, al momento della prenotazione, di darci conferma, la mattina del giorno della cena, circa la disponibilità di prodotto fresco del posto.
Conferma avvenuta “ …nessun problema. Il pesce c’è!”.
Perfetto. Cena confermata.
Grandi aspettative, ma comunque non riusciamo a celare qualche timore.
Il posto è sempre bello, minuscolo.
L’accoglienza particolare ma sostanzialmente affabile.
Vino portato da noi per avere almeno qualche certezza.
Vabbè, inizia la cena.
Va raccontata esattamente nel suo incedere per comprendere il dramma.
Primo antipasto: bruschette alte tre centimetri di un pane con farina a sei zeri e ciotolina di una tristezza infinita contenente alici sottolio mollicce di evidente natura discountiana.
(… sarà, entrata semplice; si rifarà, pensiamo speranzosi, è solo l’inizio).
Secondo antipasto: inenarrabile frittata troppo cotta con provola affumicata e salmone! Nooo! Sul trabocco il salmone no! Inizio ad avere paura… Il trabocco senza mare.
Terzo antipasto: carpaccio di tonno inzuppato con preponderanti anelli di cipolla rossa.
Ora, in primo luogo non ho un bellissimo rapporto con i carpacci di cui non sopporto l’assenza assoluta di tipicità, poi, con tutta la simpatia per gli amici tonni, non mi sembra che nella tradizione gastronomica del medio adriatico vadano proprio per la maggiore.
Quarto antipasto: polpa di Cefalo (?), ma poteva essere qualsiasi cosa, mummificata con la solita provola dentro un fetta di melanzana e deposta su un un letto funebre di ceci.
Tremo…
Con i due antipasti successivi diventa certezza l’evidenza che il nostro amico traboccante non ha neanche preso in considerazione l’ipotesi di svegliarsi di buon mattino e girare per pescherie in cerca di pesce fresco da offrire a quelli che usa chiamare affettuosamente “ospiti della serata”.
Quinto antipasto: mini frittura di gamberi rosa e alici.
Detta così può sembrare anche gradevole ma, per chi non lo sapesse, il gambero rosa del mediterraneo o gambero bianco, usato come esca dai pescatori amatoriali, in zona viene regalato a piene mani dai pescivendoli data la grande presenza, il basso valore economico e il non entusiasmante impatto gustativo.
Spesso ho dovuto rifiutare con veemenza l’aggiunta, in dono, nella mia busta di pesce di cui sopra, di questi simpatici anonimi crostacei.
Sesto antipasto: Gamberi rosa in generico olio e prezzemolo.
Lo chef ha opportunamente selezionato dal secchio dei gamberi rosa quelli più piccoli per la frittura e quelli più grandi per questo antipasto, confidando che qualche occhio inesperto (ossia la maggior parte degli avventori) li potesse scambiare per più pregiate mazzancolle.
È una disfatta ….
Intanto ci guardiamo esterrefatti dinanzi a tanta assenza.
Settimo antipasto (notare che il gioco degli antipasti è spesso usato per distogliere l’attenzione dal reale focus della cena) : pochi Calamari (?) dell’Adriatico (?) alla piastra.
Qui l’affabulazione ha raggiunto vette epocali quando il nostro amico oste ci ha raccontato dell’impegno profuso per trovare proprio per noi veri calamari dell’adriatico.
Sarà ma mi capita di vederli praticamente ogni giorno freschi freschi. Non ce ne saranno tantissimi ma ci sono.
Terminata l’interminabile via crucis di antipasti, la tristezza assume forma di portata nel primo piatto.
Sei, dico sei, paccheri appiattiti in una salsa di pomodoro e inconcepibili mezze olive denocciolate.
Sul fianco del piatto le salme di due scampi, ovviamente di piccola taglia a dimostrazione dello stretto legame (…sarcasmo) della cucina di questo trabocco sofferente con il mare sottostante.
Ma tutto quanto raccontato non rende a sufficienza l’idea della distanza di questo, ma credo di tanti trabocchi convertiti a ristorante, dalla cucina di pesce reale.
Sentiamo provenire dall’adiacente cucina un odore di qualcosa di prossimo a un arrosto.
Un misto tra pollo e seppia. Indecifrabile. Inquietante.
Siamo scossi. Non abbiamo troppe speranze. Non ci aspettiamo niente di buono.
Temiamo o forse, a questo punto, speriamo il classico arrosto rinsecchito con un merluzzetto, una sogliola e uno spiedino di totani.
No, Tritone ha scatenato le ire degli dei marini contro di noi.
Nel piatto qualcosa di mai visto, almeno sulla costa dei trabocchi.
Mentre sotto di noi il mare si infrange contro gli scogli, nel piatto si figura qualcosa che anche in un’osteria di mare della Val di Fassa faticherebbero a comprendere.
Un misero trancio di spigola di piccola taglia, allevata, e un brandello di tonno martirizzato su una piastra.
Io un trancio di spigola qui non l’avevo mai visto!
Per fortuna è finita, cioè no. C’è il dolce, ma di questo per pudore non parlo.
trabocco senza mare.
E anche se il conto è prossimo a quello di un stellato, non è questa l’amarezza più grande, ma la malinconia di aver cercato un posto dell’anima, e aver trovato invece un trabocco senza mare.
Stefano Capone