Pratico l’arte della pausa pranzo da quasi un quarto di secolo.
Una lunga e onorata gavetta che, a sprezzo di azzardi gastronomici anche elevati, mi ha portato a riempire l’agognata ora di lontananza dal posto di lavoro con piatti che a volte sono risultati addirittura piacevoli.
Un continuo districarsi tra proposte variopinte e, per la maggior parte delle volte, improvvisate.
Ho combattuto dure battaglie contro improbabili chitarrine mari e monti e gnocchi alla sorrentina e paste alla norma.
E anche, con il rischio di soccombere, ho tenuto testa con fierezza alle temibili insalatone di farro e orzo perlato con i pomodorini, i sottaceti e il tonno.
Ho mangiato panini ai quattro cereali scongelati con il brié (con l’accento!) e la mortazza.
Insomma, penso di aver dato tanto alla causa della pausa pranzo.
Una vita di sacrifici e tentativi. la disfatta del radicchio
Ma i cuochi improvvisati delle 12:30 se non ti uccidono ti rafforzano.
E così ho raggiunto un equilibrio insospettabile.
Conosco il nemico e lo affronto con saggezza.
So dove, so come, so cosa mangiare durante la pausa pranzo sapendo soprattutto di dover tornare integro a lavoro.
Addirittura pranzo sempre e amorevolmente con un paio di colleghi, peraltro in una quieta sensazione di amicizia che si rinsalda davanti ad un desco dignitoso e alla complice libertà di sparlare, alle spalle, del capo e dei simpatici vicini di scrivania.
Non c’è niente da fare: quando per anni condividi il caffè del distributore automatico, diminuendo progressivamente le tacche di zucchero, arrivi a una intimità tale da poter diventare padrino di cresima.
E se ci metti che nel tempo mi sono illuso di aver condotto i due compagni di ventura sull’inafferrabile via del mangiare accorto la mia pausa ha rasentato la perfezione.
Ma un nemico subdolo mina in continuazione i precari equilibri del gruppo!
La lavagnetta del menù del giorno che calamita pericolosamente le attenzioni dei miei commensali.
Tralasciamo la parte bassa della lavagna, uguale a sé stessa da sempre, che dovrebbe essere vietata per decreto presidenziale, con la sua tagliata di pollo, il trancio di tonno, di spada, o di salmone e la frittura di calamari congelatissimi (che peraltro sono totani!).
Il problema grosso sta in alto, dove si avvicendano giorno dopo giorno delle accozzaglie dai nomi compositi che dovrebbero essere i primi piatti.
La mia scorza di mangiatore seriale mi protegge da questo canto delle sirene che intrappola, invece, irrimediabilmente, i miei compari di piatto allontanandoli dal rassicurante e asettico insalatone di ordinanza o dal più spericolato ma tranquillizzante spaghetto con il tonno.
Io mi chiedo: chissá quale mente diabolica potrà mai concepire questi coacervi impossibili che qualcuno chiama primi piatti?
Una iniziale ipotesi è che nelle cucine improvvisate delle pause pranzo i cucinieri si avvalgano dell’ausilio di un “generatore automatico casuale i primi piatti”.
Una app, un qualche marchingegno elettronico, un’intelligenza artificiale che, data la parola chiave tira fuori le diaboliche combinazioni destinate a devastare ignari formati di pasta.
Una delle parole decisamente più gettonate è radicchio! Un must!
E così nell’oscurità di complici cucine, qualche clic e nascono veri è propri capolavori dell’assurdo all’insaputa del povero radicchio!
Fusilloni, radicchio e bolli scaduti! Tac!
Scialatielli, chiavi a brugola da 5 e radicchio! Tac!
Pacchero, radicchio e cotton fioc caramellato! Tac!
E il menù è completo.
Altra possibilità verosimile per concepire le prime due righe della della lavagnetta è, cosa realmente accaduta, il gioco di società.
Quando la frequentazione diventa abitudinaria, può succedere, come è successo a noi, che l’addetto alla cucina tronfio delle presenze collezionate, e ipotizzando come reale il suo talento ai fornelli, possa chiedere di scegliere direttamente ai commensali il primo per il giorno dopo.
Nel nostro caso un entusiasmo irrefrenabile si è impossessato dei miei cari colleghi che, al grido di «facciamo qualcosa col radicchio!» sono entrati in una trans creativa da esorcismo.
E mentre cercavo invano di ricondurli alla pacata sicurezza di uno spaghettino pomodoro e basilico, loro hanno sfogato i loro istinti più primitivi sul malcapitato radicchio alternando in sequenza colpi di pura follia gastronomica.
La disfatta del radicchio
Un gioco al massacro!
Mezze maniche, radicchio, fusibili croccanti da 5 ampere… e gorgonzola!
No! Dai! Pesante!
Penne rigate, straccetti di carta crepla e radicchio!
Noooo! Uffa!
Meglio la pasta lunga!
Chitarrina, radicchio e julienne di feltrini!
E così via fino alla casuale e definitiva scelta di quattro ingredienti singolarmente commestibili: tagliatelle, salsiccia, funghi e lui, l’incolpevole, bistrattato: il radicchio.
Il resto, l’indomani, è purtroppo triste storia.
la disfatta del radicchio
Stefano Capone