Siamo inesorabilmente quello che abbiamo mangiato.
Il tempo, sì, farà qualche piccolo ritocco, ma siamo inevitabilmente gli odori che abbiamo sentito dall’inizio, i colori che abbiamo guardato, le cose che abbiamo toccato.
E io sono la busta.
Il sabato.
Solo il sabato.
Il lavoro, il dovere, le cose della vita, rubano ferocemente il tempo alle sensazioni che prima o poi, però, ti ritrovi nei ricordi e sulla pelle.
E resta solo il sabato.
L’attesa diventa eterna.
La curiosità trabocca.
Ora di pranzo.
Il citofono.
Bambino, divoro i 4 piani di scale due gradini alla volta saltando gli ultimi tre di ogni rampa per fare prima.
Intravedo mio padre che sale forte della sua gioventù già al terzo piano.
Un bacio e gli occhi vanno alle sue dita salde segnate dalle buste.
Piene, due per ogni mano. Anche tre.
I segni rossi.
Lui davanti e io dietro a rincorrerlo fino a casa.
Il mercato. La felicità. L’attesa.
Le buste riverse sul tavolo della cucina e io, naso all’insù a scoprire le stagioni.
Il sabato.
Solo il sabato.
Attendo di scorgere l’auto dal balcone.
Il citofono.
Adolescente, sbrano i 4 piani di scale tre gradini alla volta saltando gli ultimi quattro di ogni rampa per fare prima.
Intravedo mio padre che sale, imbiancato della sua maturità placida, al secondo piano.
Un bacio e gli occhi vanno alle sue dita sincere e provate, solcate dalle buste.
Piene, due per ogni mano.
Due le prendo io, due a lui.
Io davanti, lui dietro, fino a casa.
Il mercato. Il mistero. La ricerca.
Le buste riverse sul tavolo della cucina e io a frugare avido tra i sapori per placare la fame curiosa della mia feroce giovinezza.
Il sabato.
Sempre il sabato.
Io, giovane adulto, conosco i tempi.
Il citofono suona ma sono già in cortile.
La testa canuta di mio padre.
Un bacio. Le buste poggiate a terra.
Le prendo tutte io.
Due in una mano. Tre nell’altra.
Lui davanti, piano.
Io dietro, al suo passo.
Fino a casa.
Le buste riverse sul tavolo della cucina e noi a compiacerci ancora una volta della scoperta.
Il sabato. Ancora il sabato.
La mano di mio padre alla finestra in alto mi saluta.
Lo sguardo canuto e fiero.
Il citofono.
Sono io.
Due buste in una mano, tre nell’altra.
Salgo le scale.
Solo.
Del mio passo.
Fino a casa.
Un bacio, le buste riverse sul tavolo della cucina e io a sperare approvazione.
Un pezzo di caciocavallo sudante trafitto dalle crepe nel suo incarto indeciso, le acciughe salate grandi e mature, le cime di rape floride e compatte, le arance lucide, il pane che sporge a regalare alle nostre mani il primo suadente pezzo, le mozzarelle bianche grondanti di latte, i carciofi stretti della loro freschezza, la coda del baccalà spunta dalla busta quasi fosse vessillo del ritorno.
La testa di mio padre che accenna un sì.
E’ sabato
Anche adesso arriva il sabato.
E sono inesorabilmente quello che ho mangiato, quello che ho toccato, le scale che ho salito.
Il citofono non suona.
Ma io sono la busta.
Stefano Capone
Commovente
Buongiorno, e complimenti per il bell’articolo, merce rara di questi tempi, come tutto il lavoro del vostro sito.
Il suo descrivere così bene delle sensazioni, mi ha riportato alla mente ricordi ormai sfumati ma simili, paradossalmente anche delle buste del supermercato (ormai scomparso) dove faceva la spesa mia mamma del mio affannarmi per portarle a casa e vedere cosa contenevano.
Un rumore, un affetto, il tempo che inesorabile passa.
romantico . ne vogliamo di più tutti.