Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione ai tempi del droplet

Non lo so. 

Probabilmente anche noi stiamo facendo in qualche modo gli struzzi.

Anche noi che ci dilettiamo a scrivere e ragionare, per amore e per passione, di cibo, ristoranti e di quello che ci passa in testa intorno a questo mondo.

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Anche noi che avremmo fatto e faremmo ancora di tutto per un piatto ben cucinato, una tavola pronta a sopportarci e un bicchiere di buon vino, anzi più di uno, a sciogliere i lacci dei nostri ragionamenti notturni e conviviali.

E invece siamo qui che affondiamo la testa nella sabbia forse per la paura di ciò che resterà, forse per la speranza che qualcosa resterà.

Continuiamo, giustamente e con enfasi immutata, a ragionar di cose, ma non ci siamo mai realmente fermati a ragionare su cosa ne sarà di tutto quello di cui parliamo.

Avremmo fatto chilometri inimmaginabili in una sola sera per provare un ristorante.

Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione

Ci saremmo giocati il sonno per partecipare a una degustazione.

E non aspettavamo altro che infilarci nella ressa di una fiera col bicchiere appeso al collo a sentirci raccontare di vino e di vita spalle a spalle con una marea di sconosciuti appassionati.

E ora invece? Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione

Cosa sarà realmente di tutto questo e dei nostri entusiasmi dopo questo innominabile sputo di secolo?

Io non lo so, e non lo immagino.

Veramente. Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione

Non ne ho la più pallida idea.

Non credo di avere neanche la reale convinzione di un auspicio.

Per ora avverto solo una terribile nostalgia.

Non entro e non saprei entrare adeguatamente nel merito politico, sanitario o economico di tutto quello che sta succedendo.

Ho rinunciato a capire.

Faccio il bravo cittadino. O faccio finta.

Rispetto per quanto possibile le regole” e da buon italiano medio divento censore e giudice se vedo chiunque altro con la mascherina sotto il livello del naso a dieci metri da me.

E in questa aberrazione claustrofobica ho una grande nostalgia della libertà.

Libertà di entrare da un amico ristoratore, prendere un bicchiere al bancone e sedermi poi al tavolo con qualche commensale godereccio e dire allo chef “Fai tu..”

Ne ho nostalgia nella stessa misura in cui mi manca la libertà, ma senza alcun edonismo, di andare al cinema, in un museo, a un concerto.

Nella stessa misura in cui è giusto considerare il buon cibo o il buon vino arte a tutti gli effetti e quindi bene indispensabile per la vita e per l’anima.

Non mi gratifica né mi solleva accontentarmi dell’asporto.

Che brutta parola!

Rende solo il senso della soddisfazione di un bisogno fisiologico primario.

Le cose smart non mi convincono affatto.

Le ho praticate per breve tempo e ne avverto l’assoluta inefficacia.

Non sono tra quelli a cui questa prigionia appare come una liberazione, un pretesto, una lunga vacanza.

E ce ne sono tanti!

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Mi ritengo assolutamente fortunato per aver continuato a lavorare sempre da quando tutto è iniziato.

In condizioni pressoché identiche al passato, diffuse ovunque, avallate dalla legge e dall’ipocrisia comune, che nulla hanno di più sicuro, in termini sanitari, rispetto un ristorante o un’enoteca o un teatro o un museo onestamente gestiti in questi tempi difficili.

L’economia reale e concreta, qualsiasi cosa ne pensi chi scrive le regole, passa attraverso un inevitabile intreccio promiscuo di persone che nessuno smart può e potrà sostituire.

La nostalgia e la profonda solidarietà, sostanzialmente inutile, per chi opera nel mondo della ristorazione e dintorni che tanto mi ha dato in termini di piacere e benessere e verso il quale non saprei ora come ricambiare, non possono niente di fronte al tempo che passa e alle cose che cambiano.

Perché molto è cambiato, è ovvio.

Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione

Non so se irreversibilmente oppure no, ma lo temo.

Non so se per colpa di qualcuno oppure no.

Io ci sono tornato a pranzo nei ristoranti, nei posti del cuore e del ricordo, ogni volta che la ruota dei colori ci ha concesso in sorte due giorni di respiro giallo.

Ma non è la stessa cosa.

Anche io, anche noi forse siamo cambiati.

La sensazione è di essere diventato estraneo entrando in luoghi una volta familiari.

Ma non per colpa loro.

Di fare una cosa che, sebbene permessa a volte, appare comunque inopportuna di questi tempi.

Sì, tutto questo ha steso una coltre di colpevolezza su chi vuole, quando consentito, concedersi un pranzo fuori (…ormai la cena è un concetto già rimosso dal pensare comune) come si faceva tanto tempo fa.

E questi tempi di droplet in cui ogni cosa ha una scucitura per essere fatta nonostante le regole, tranne la ristorazione e la cultura, hanno subdolamente insinuato una incresciosa e quasi sempre ingiustificata diffidenza verso gesti e situazioni un tempo consueti.

Così, quando capita di rientrare in un locale, sottoposti ai nuovi rituali della temperatura e del gel igienizzante, la sensazione è di smarrimento.

E l’istinto, che prima ci avrebbe fiondato diretti e contenti verso il solito tavolo, ora invece catapulta la nostra ansia sull’analisi delle “regole”.

Le regole.

Che parolone.

«Tavoli?», pensi, «Sono come erano prima? E il distanziamento?»

«E il menù?», ancora, «non doveva essere usa e getta? Non mi sembra? E ora? Lo tocco?»

E avvicinandosi al tavolo: «Siamo quattro. I posti sono di fronte. Non siamo congiunti. Possibile? Che si fa? Dove mi siedo? È tutto un droplet!»

E poi, la mascherina.

«La metto quando viene il cameriere? La tolgo quando va via? La rimetto quando ritorna?»

E avanti così in un succedersi di dubbi insulsi e di parole nuove che nulla hanno a che fare con un momento così naturale e che l’onestà diffusa dei ristoratori non merita.

Non lo so cosa ne sarà di tutto questo e delle nostre consuetudini, ma so di certo che di tutto questo continuerò a scrivere e, alla prima occasione utile, io al ristorante ci torno! 

Cosa sarà? Dissertazione inutile sulla ristorazione ai tempi del droplet

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