Di Serena Manzoni,
“C’è qualcosa di meglio dello starsene col corpo in acqua e la mente in cielo?”
Ho l’abitudine di fare scegliere i libri che leggerò a Danilo, il mio libraio di fiducia, perla preziosa nel mare desolato della carestia intellettuale che ci circonda.
A volte voglio sapere cosa mi propone, preferibilmente no. ricci di mare
In questo caso mi è bastata questa citazione in quarta di copertina per capire che un’altra volta il bravo Danilo aveva fatto centro.
Il libro è Acqua di mare di Charles Simmons nell’Edizione SUR con traduzione e postfazione di Tommaso Pincio.
Non posso fare a meno del mare mi pacifica e mi appaga, mi incuriosisce sempre e mi consola.
La frase che ho riportato descrive la preferenza del nuotare a dorso del protagonista in un periglioso oceano, ma per me significa un’altra cosa: avete mai provato a guardare il cielo da sotto l’acqua?
Purtroppo non so immergermi, prima o poi lo farò, ma a me basta scendere con la testa sotto e, con gli occhi aperti, guardare il cielo attraverso la trasparenza dell’acqua.
Sono i colori che preferisco, me ne farei un vestito: abiterei volentieri quell’iridescenza.
Forse quello che vedo è lo stesso che vedono le alici quando fanno il pallone?
Ma chi sa dove guardano le alici?
E dove guardano i ricci di mare?
Tutto questo adamantino preambolo per arrivare a lui, al riccio di mare, Echinoidea, abbarbicato al suo angolo di scoglio, con i suoi inimmaginabili piedini trasparenti, che guarda (o ascolta?) il mare dalla sua corazza puntuta.
Mangiarli è un’esperienza che non può prescindere dal mare: tra le sue creature il riccio è senza mezzi termini, misterioso e atavico, fragile e al contempo ostico.
Adoro mangiarli, dove il mangiarli significa tutto: il guardarli mentre stanno sospettosi al centro della tavola e poi aprirli incidendoli con le forbici in quella che credo sia la bocca e che scopro chiamarsi la lanterna di Aristotele, terribile ostentazione di potenza di noi bipedi con i nostri implacabili attrezzi.
Mangiarli significa sentire il rumore della punta della lama che entra dentro e da cui si difendono con un ultimo eroico spruzzo. ricci di mare
Echinoidea, lanterna di Aristotele, tutte cose da maneggiare con cura…c’è sicuramente di mezzo il pensiero.
Mangiarli significa sentire il cedimento del dermascheletro, che non fa particolare resistenza e ti invita ormai a scoprirne l’interno, dopo il movimento rotatorio della mano che arriva a rivelare il cuore, superbo inno alla riproduzione, goloso e morbido ricordo dai colori corallini.
Non mi piace usare il pane per conquistarne il succo (e qui mi perdonino i pugliesi) perché amo sentire il raschiare un po’ affilato del metallo di un cucchiaino da dolce che lo accompagna verso l’alto, verso papille golose di un sapore così unico, marino e terreno insieme, affilato e morbido, secco e allo stesso tempo rorido di vita e di mare.
Allo stesso tempo non amo accompagnarlo alla pasta, il riccio di mare va mangiato puro, senza mediazioni, senza compromessi!
Il sapore è lungo, lungo ed evocativo, appagante.
Mangiarli è “Calda solarità in festa sul mare”, per dirla con Joyce, ma non solo.
Nel loro sapore c’è anche il nascosto, lo scuro, il protetto, la roccia oltre che l’acqua, il duro, l’ossuto, l’ostico.
Non si mangiano i ricci di mare con leggerezza, anche se può sembrare vero il contrario, mi si dice da che li pesca che il catturarli implica qualcosa di emotivamente forte: “una pesca stranamente intima” perché, insomma, prendere un riccio di mare “non è come prendere una vongola…”
ricci di mare
Serena Manzoni