Di Serena Manzoni
Ottobre o della malinconia. Piove dietro le persiane, dietro la pioggia roccia e alberi non ancora arrossati dalla timidezza autunnale, spavaldi in un ricordo di verde grondante di quell’acqua che tra breve diventerà brina e li renderà bellissimi e magicamente assorti. Permettetemi questa vena intimista, ma si sposa così bene alla stagione e per così dire alla posizione.
Sono in Valle, le mie ferie ottobrine questa volta le passo con la mamma e con mio fratello in uno dei due posti che adesso chiamo casa. E allora assecondo questo umore malinconico e un po’ umidiccio e rivado all’infanzia, alla mia gastroinfanzia per la precisione.
Mi concentro ma senza troppo sforzo, diciamo piuttosto che plano con dolcezza sulla tavola apparecchiata dei miei pochi anni. Le domeniche per cominciare, con l’immancabile polenta accompagnata dal coniglio o dal brasato la cui carne diventava tutt’uno con il sugo e con l’aglio o la pancetta infilati nella carne prima della cottura.
A volte la polenta ucia, unta nel vero e proprio senso della parola: la polenta sistemata in una terrina con del formaggio tagliato a piccoli pezzi su cui viene versato del burro imbiondito in pentola con della salvia. Per ovvi motivi di peso specifico in quel caso il piatto succulento diventava piatto unico bastante ad accompagnare i pigri pomeriggi con la speranza che mio padre non volesse guardare il Gran Premio in televisione.
Altre domeniche erano quelle passate senza la mamma, lavorando in un ristorante mancava da casa proprio nei fine settimana. Ecco arrivare quindi, in vaschette di alluminio, dallo stesso ristorante, il triste pranzo domenicale: ravioli alle noci con l’immancabile panna, arrosto navigante in sughetto al glutammato (che volete, erano gli anni ottanta…) e le mitiche patate al forno!
Quando mio padre era dell’umore giusto il coniglio al civet, prelibato modo di cucinare il coniglio con il proprio sangue, ricetta proveniente dai trascorsi di emigranti in Francia dei miei nonni. Mio fratello storceva il naso, mentre io adoravo il sapore dolciastro del sangue cotto e rappreso in una salsa leggermente grumosa ma terribilmente suadente. La domenica sera chi di voi non ha mangiato i toast con le sottilette e il prosciutto cotto?
Il dolce della mia infanzia non può che essere il tiramisù. Anche in questo caso non credo di essere particolarmente originale, ma è bello pensare come sia una delle ricette con cui si comincia a cucinare. E’ così facile e naturale aiutare la mamma a montare le uova a neve o a grattuggiare il cioccolato rubandone qualche pezzetto ogni tanto, sbattere l’uovo con lo zucchero e amalgamare il mascarpone, leccare la frusta bagnata dalla dolcissima crema prima di lavare stoviglie e strumenti utilizzati. Ancora adesso più che il tiramisù preferisco i suoi elementi rubacchiati qui e là durante la preparazione. Solo per puntualizzare: il tiramisù va fatto con i savoiardi…
La torta della mia infanzia invece è la Veja. Su un disco di pasta sfoglia bucherellata a dovere, uno strato di nocciole triturate su cui vengono appoggiate concentricamente fettine di mele, il tutto bagnato con un uovo sbattuto con lo zucchero, la panna e un goccino di marsala e poi messo in forno. Scopro soltanto oggi che si tratta di una ricetta della tradizione svizzera, le storie di emigrazione dalla Lombardia sono storie abbastanza recenti, raccontate anche a tavola evidentemente.
Ma passiamo alle estati, le estati delle ginocchia sbucciate, le estati dalla nonna al mare con le mattine in spiaggia e i pomeriggi in campagna a rimpinzarci di more, amarene e albicocche. E la minestra della nonna, con gli spaghetti spezzati e tutte le verdure del suo orto disponibili al momento. La cuoceva nel pomeriggio, appena dopo pranzo per poi riscaldarla la sera: compete soltanto con la focaccia che mangiavamo al mattino con tutto l’odore del mare e il sale dei nostri piccoli corpi abbronzati. Ancora il coniglio, nella padella di sempre con il sale grosso e le olive taggiasche. Una nonna concreta e poco incline alle dolcezze preparava al massimo il budino (che tuttora detesto), ma c’erano i gubeletti del forno in fondo al paese… fagotti tondi ripieni di marmellata, come colline coperte di zucchero a velo.
Poi l’estate finiva e tornava l’autunno, con la pioggia dietro le persiane, dietro la pioggia la roccia e gli alberi prima verdi e poi infuocati di rosso e di oro e poi spogli o brillanti di bianco… Sì mamma, sto arrivando! Scusatemi, devo andare…è pronto il coniglio…
Serena Manzoni
La vera polenta si chiama “Polenta Uncia, e non ucia – e, deve obbligatoriamente essere molto, molto grassa.
Come tutte le ricette di antica tradizione difficile stabilire in modo certo quale sia il territorio d’origine e di conseguenza il nome corretto,nelle zone bergamasche di confine tra Val Brembana e la Valtellina si chiama “ucia”,mia zia che viveva tra Lecco e Como la chiamava “vuncia”.L’ho mangiata in 2 diversi ristoranti in provincia di Lecco in uno hanno messo l’aglio e la salvia e il burro era chiaro e nella polenta c’era un po’ di farina di grano saraceno,nell’altro l’aglio non c’era,il burro era rosso e scoppiettante e la polenta era completamente gialla,entrambi i cuochi sostenevano che la loro era la ricetta originale.L’ho mangiata in Val D’Aosta,si chiamava “polenta concia” ed era cucinata allo stesso modo,cambiava il tipo di formaggio perchè c’era la fontina e secondo loro era originaria di quella zona.
Ho chiesto un po’ in giro e ho trovato un’unica risposta comune: è un piatto nato per recuperare anche gli avanzi,nella zona delle Valli Bergamasche si mettevano gli avanzi del formaggio, a volte anche le croste e spesso del taleggio grasso,burro e salvia sempre presenti.