Di Serena Manzoni,
questa è una lettera d’amore alla ristorazione.
Come tutte le lettere d’amore probabilmente un po’ patetica e con tutte le cecità e i limiti che il sentimento prevede e approva.
Difficile anche evitare in tale contesto epistolare la giusta dose di banalità e di prevedibile noia, ma si tratta di scritti spinti dal cuore, perdonabili.
Questa è una lettera d’amore per chi, fino a poco tempo fa, mi ha permesso di cibarmi fuori casa, nelle sue più svariate forme, da quelle classiche a quelle che ora ci siamo abituati a definire smart.
In questi giorni ci siamo tutti riscoperti cuochi, impastatori e pasticceri e in questo c’è sicuramente il suo lato confortante, un ridimensionamento se vogliamo della frenesia bulimica che questi ultimi secoli ci hanno regalato.
Più volte ho ribadito quanto sia necessario e gratificante affrontare ingredienti e preparazioni, la gioia sinestetica della pulizia di un ortaggio o del pesce e non è questo il contesto in cui lo negherò.
Mi mancano però i ristoranti, di lusso e no, le osterie e le trattorie, i bar, le pizzerie e le pasticcerie, le enoteche e le enotavole…
Mi mancano le sedie scomode e quelle comode, gli sgabelli, persino i divanetti lungo le pareti, i banconi, le cucine a vista, le casse.
Mi manca il tovagliato, le tovagliette e i tovaglioli, quelli di stoffa e quelli di plastica, i bicchieri giusti e quelli sbagliati, le forchette e i coltelli, persino i coltelli che non tagliano.
Mi mancano le cameriere e i camerieri, le loro divise formali e informali, la loro gentilezza o la loro fretta, mi manca quando mani esperte sporzionano ritualmente il pesce sepolto sotto la sua magica crosta di sale.
Mi mancano le cuoche e i cuochi, le brigate più o meno formalizzate che realizzano tra fuochi, acqua e fumi, i piatti che ho scelto.
Mi mancano i menù, scritti e descritti, ancora di più mi manca quando non scelgo e lascio fare all’estro della cucina.
Mi mancano gli avventori, che osservo in maniera compulsiva e probabilmente un po’ maleducata, attratta da volti, comportamenti e voci.
Mi mancano le parole con i commensali sorseggiando vini e scambiando idee sui massimi sistemi o frivolezze.
Mi manca la musica, quella giusta e al giusto volume e forse un po’ meno quella troppo chiassosa.
Ogni esperienza un racconto, un viaggio, a volte appagante a volte no.
Insomma mi manca uscire per una cena o per un pranzo, benché sia consapevole che si tratta di un giusto sacrificio atto a tutelare la nostra salute e quella degli altri.
E’ una lettera d’amore lo dicevo, parziale e un po’ cieca, che non ignora anche se non affronta le complicanze della situazione.
Non ignora l’importanza dell’isolamento in questo particolare contesto, non ignora le conseguenze economiche che ne derivano, non ignora tutti gli altri settori che ne sono coinvolti, non ignora la paura e il disorientamento che ci hanno travolti.
Non ignora nemmeno il lusso di potersi improvvisare panificatori in casa quando per altri il problema è il sostentamento e il reperimento di cibo quotidiano.
Non ignora e non nega che ci sono cose più importanti.
E’ una lettera d’amore che esprime la nostalgia per quelle esperienze che hanno saputo darmi scampoli di gioia e che spero possano tornare presto a darmene.
Ovviamente, quando si potrà e in sicurezza.
Lettera d’amore alla ristorazione
Serena Manzoni