Di Serena Manzoni,
Qualche giorno fa mi trovo a passeggiare attenta e rapita tra i chiostri e le cappelle della Certosa di San Lorenzo, a Padula, nel Parco del Cilento e del Vallo di Diano.La frittata del Pontormo
Il mio camminare si è fa sempre più lento, interrotto di continuo da splendidi altari intarsiati dove pappagalli, fiori e frutti di madreperla e lapislazzuli osservano attoniti i fotografi compulsivi di questo millennio già stanco, e San Michele, arcangelo barocco calpesta e vince l’immancabile demone.
Come descrivere emozioni e pensieri nel vedere posti lasciati vuoti da spoliazioni volute dalla storia e pieni di ciò che rimane, non ultima la vegetazione che sempre e comunque sopravvive all’uomo?
E lo sforzo di immaginare e seguire il racconto di un luogo che dal 1306 è stato voluto ed è cresciuto, accogliendo monaci e conversi, tra attività pratiche volte alla vita quotidiana dei suoi abitanti e la clausura pensosa dei padri certosini?
Un passo e una sosta, un passo e una sosta, la mente aggrovigliata tra il cielo che si fa scuro e un dipinto intravisto di un banchetto, Le nozze di Cana di Alessio D’Elia, dove personaggi in costume settecentesco ammiccano al severo desinare dei monaci, non sempre però, poiché normalmente il pasto dei religiosi era solitario e nella cella.
Non molto lontano dal refettorio, la sorpresa, che alleggerisce lo sguardo e i pensieri: la cucina
Coloratissima e affascinante per il gusto contemporaneo: sembra di entrare in una delle cucine dei film di Pedro Almodovar!
Maioliche gialle e verdi, probabilmente appartenenti a qualche cupola, intervallate da altre decorate a motivi vegetali, un’enorme cappa ed un’enorme bollitore che sembrano uscite dalla penna di qualche favolista, alle pareti quel che rimane di un affresco seicentesco che ci dice che probabilmente il luogo in precedenza aveva avuto un’altra funzione.
Non voglio più uscire da quella cucina e mi trattengo nei particolari. Tra questi, un’informazione riportata dai pannelli che accompagnano il visitatore in cui si racconta di una pantagruelica frittata, preparata con mille uova per le truppe di Carlo V, fermatesi a Padula di ritorno dalla battaglia di Tunisi nel 1535. La frittata del Pontormo
La dieta del monaci era prevalentemente vegetariana e parca, secondo la regola, ma un esercito è pur sempre un esercito e quei baldi ragazzoni saranno stati pure da sfamare! Ecco quindi la portentosa frittata!
Immediatamente il pensiero corre birichino ad un’altra frittata: il povero pesce d’uovo del Pontormo, che dal 1554 scrive un diario, mentre era impegnato nella realizzazione degli affreschi del coro di San Lorenzo a Firenze.
Nel diario l’artista annota il lavoro giornaliero e particolari delle sue sofferenze fisiche e della sua quotidianità, con un’attenzione metodica al cibo consumato e alla sua quantità (le uova hanno sicuramente un posto di rilievo).
Amara coincidenza quella tra il San Lorenzo dei monaci della certosa di Padula e l’opera di Jacopo Carucci, grande ma sofferente e abituato a lauti pranzi solo se ospite di Bronzino.
Per i padri certosini digiuno e pasti leggeri per seguire la regola, per il grande manierista dieta, diciamo così forzata… in mezzo a loro le truppe di Carlo V e la loro omelette da Guinnes!
“venerdì cominciai un hora inanzi di quelle schiene che sono sotto a quella / cenai una libra di pane sparagi e huova e fu uno bello dì “
dal diario di Jacopo Carucci, detto il Pontormo
La frittata del Pontormo
Serena Manzoni