Di Serena Manzoni,
Non perdiamo le buone abitudini… non perdiamo soprattutto quella alla lettura se l’abbiamo e se non l’abbiamo prendiamola. Per quanto mi riguarda, la lettura, più che un’abitudine è un bisogno primario, senza cui le funzioni vitali si troverebbero a soffrirne, come l’acqua, come il cibo, come le giornate di sole a primavera davanti ad un mare appena increspato.
Quando leggo un libro di narrativa, mi trovo spesso a notare quanto si parli di cibo anche senza voler fare della critica gastronomica o delle riflessioni specifiche sull’argomento; semplicemente se ne parla perché entra nella giornata delle persone di cui si racconta la storia, perché gli uomini passano un bel po’ del loro tempo a mangiare e bere o a non poterlo fare. Lo fanno in maniera diversa a seconda di chi sono, dove sono e con chi sono ed è curioso notare le differenze in questo senso in un libro ambientato nella Francia di fine ottocento, nella Sicilia di oggi o in un’isola che non c’è.
Oggi però vi voglio intrattenere scrivendovi di un libro che parla proprio di cibo e di osterie, nell’Italia degli anni trenta, scritto da un giornalista noto e illustrato da un vignettista astemio: ll ghiottone errante. Viaggio gastronomico attraverso l’Italia, il giornalista è Paolo Monelli e il disegnatore è Giuseppe Novello, riedito da Slow Food Editore con prefazione di Carlo Petrini.
Si tratta della raccolta degli articoli scritti per la Gazzetta del Popolo in cui i due intraprendono un viaggio tutto italiano per trovare e descrivere la cucina italiana, ancora profondamente regionale, fatta di prodotti e di stagioni, fatta da donne e uomini più che da chef. Se volete fa venire un po’ in mente di quando i mulini erano bianchi, ma non è proprio così.
In realtà mi sono trovata spesso a pensare, durante la lettura, di come sarebbe adesso un viaggio come quello dei nostri esploratori, di come siano cambiate le abitudini alimentari di chi mangia fuori casa e perché. Insomma, per chi si cucinava nelle locande dove Paolo Monelli si è intrattenuto? Cosa si mangiava in effetti ce lo racconta in un descrivere nostalgico di pergolati e paesaggi ancora intatti. E cosa mangiava che mangiava in casa negli anni trenta, o meglio cosa non mangiava? E cosa beveva?
Quando racconta del vino, Monelli lo fa in maniera molto evocativa, amorevole in qualche modo, talvolta lirica mai parlando di cantine o di etichette ma di vini e di vitigni. Fa quasi invidia questa fiducia nel prodotto, non dovendosi districare tra disciplinari e produttori ma trovando genuinità senza la fatica di cercarla. Naturalmente viene da pensare se fosse proprio così, se negli anni trenta preindustriali fosse tutto buono, pulito e giusto (da brivido l’accenno dell’uso dell’amianto nella produzione del vino in una cantina pugliese, anche se i produttori erano ignari della pericolo).
Insomma, oltre a essere una lettura godibile e ironica, offre molte argomenti per la riflessione, una lettura fertile oltre che divertente.
Interessante i rimandi ad una cucina italiana che inizia a delinearsi e a essere esportata, dei ristoranti come Il Pappagallo di Bologna e L’Osteria della Scrofa di Roma che iniziano a dare alla cucina italiana un’identità riconoscibile, quasi codificata.
Ancora più interessante e condivisibile la conclusione a cui giunge il giornalista, ormai satollo alla fine del viaggio ovvero che mangiare bene non fa male.
Mangiare alimenti di qualità, genuini e sani, nella giusta misura e varietà e con piacere non apporta danni alla salute e non deve essere confuso con il cibarsi troppo, sregolatamente e con prodotti di scarsa o nulla qualità. Messaggio disarmante nella sua semplicità e ragionevolezza in questi tempi di salutismo esasperato, di integratori e di spettacolarità del cibo.
Il ghiottone errante
Serena Manzoni
Ottima recensione di un libro, che anche se datato, risulta ancora esauriente e credo necessario nella biblioteca di chi si interessa di cibo.
Quasi un antesignano della moderna critica gastronomica…