Matteo è uno chef di 27 anni che, nonostante la sua giovane età, è già una promessa della cucina italiana. La Guida Michelin lo ha recentemente incoronato miglior chef under 30 del 2025, e il suo ristorante Grow, che gestisce insieme a suo fratello Riccardo, ha ricevuto la sua prima stella Michelin.
Un risultato notevole, considerando che Matteo è relativamente nuovo nel panorama gastronomico e non ha avuto una carriera tradizionale come molti altri colleghi, con esperienze in ristoranti stellati europei. Cresciuto in Brianza, a Albiate, ha deciso di aprire il suo ristorante proprio prima che la pandemia cambiasse radicalmente le regole del gioco.
Paolo Mandelli – Matteo, come ti senti riguardo a questo riconoscimento dalla Guida Michelin? È una sorpresa, soprattutto considerando che non hai un curriculum convenzionale, con nessuna esperienza all’estero e un unico passaggio da Bartolini in Toscana. Te lo aspettavi?
Matteo Vergine – Onestamente no, non me lo aspettavo. È vero, il mio percorso è stato un po’ diverso rispetto a quello di molti altri chef che ricevono questo tipo di riconoscimenti.
Quando abbiamo aperto il ristorante, 4 anni fa, avevo già un pensiero molto preciso in mente. Volevo partire dalla tradizione culinaria, ma anche stabilire un legame diretto e profondo con la materia prima. matteo vergine
Quando è arrivato il lockdown, ho usato quel periodo per affinare le tecniche, imparare a fare il pane e sperimentare. In quel momento, il ristorante si è trasformato in una panetteria anche per cercare di incassare durante il fermo, ed è stata una sfida interessante.
Matteo, mi interessa molto il tuo pensiero gastronomico. Cosa rappresenta la cucina per te?
La mia cucina si fonda sul ritorno alle radici, cercando di creare un piatto che esprima in modo autentico il gusto della materia prima. La ricerca del gusto è quasi un atto primordiale, un qualcosa di viscerale. Inizialmente, l’estetica del piatto non era un nostro obiettivo primario, soprattutto perché all’inizio eravamo solo io e mio fratello, con una squadra molto ridotta. Il gusto è stato il nostro punto fermo, ispirandoci a un ristorante come il Trigabolo, che per me rappresenta una visione gastronomica di grande spessore.
Tu parli del Trigabolo, ma come fa un giovane chef come te a conoscere bene quella realtà, considerando che ha chiuso nel 1993, ben prima che tu nascessi?
È una buona domanda! Conosco la storia del Trigabolo da tempo e, qualche anno fa, ho avuto anche la fortuna di incontrare Igles Corelli, lo chef che lo ha reso famoso. La sua cucina mi ha sempre affascinato, perché rappresentava un mix di innovazione e conoscenza profonda della materia, un equilibrio che oggi si trova un po’ meno. matteo vergine
Il Trigabolo era famoso per la sua sperimentazione, una cucina di improvvisazione che oggi si trova raramente nei ristoranti. Oggi molti chef sono più attenti alla perfezione tecnica, ma l’improvvisazione è legata a una grande conoscenza. Cosa ne pensi?
Hai ragione, l’improvvisazione richiede una conoscenza profonda della materia e, soprattutto agli inizi, ci si ritrova a seguire modelli più collaudati. È una questione di tempo: con l’esperienza e la maturità, ogni chef dovrebbe trovare la propria strada e sperimentare, senza rimanere troppo legato a formule predefinite.
Riguardo ai format: spesso si parla di solo menù degustazione che, secondo me, diventano un po’ sterili. È difficile emozionarsi oggi, molti ristoranti propongono sempre lo stesso copione, che può risultare rigido e senza possibilità di evoluzione. Cosa ne pensi?
Anche noi, all’inizio, abbiamo seguito un format, ma stiamo cercando di evolverlo. Abbiamo iniziato a proporre piatti che, in un certo senso, permettono più libertà. Per esempio, ci piace l’idea di cucinare e servire un animale intero, da condividere. Vogliamo che la gente si senta coinvolta, non solo in un’esperienza gastronomica, ma anche in un’emozione che parte dal cibo.
La nostra cucina si concentra sulla cacciagione e sul pesce di lago pescato, perché vogliamo far rivivere nella mente quella sensazione primitiva di “andare a caccia” e procurarsi il cibo in natura, come facevano i nostri antenati.
La scelta di lavorare con la cacciagione è interessante, soprattutto considerando la difficoltà di reperirla e l’impatto emozionale che può avere. Come gestite questa scelta?
La reperibilità è sicuramente una sfida, perché chiaramente non puoi semplicemente ordinarla al telefono ogni volta che vuoi. Bisogna organizzarsi, fare attenzione anche alla stagionatura e alla frollatura della carne, anche per gestire il periodo di fermo.
Dal punto di vista etico, siamo molto attenti: praticare la caccia in modo responsabile è fondamentale. Sosteniamo l’idea che Il concetto della caccia come regolatore dell’ecosistema è profondamente radicato nell’equilibrio naturale tra le specie e l’ambiente in cui vivono.
In molte aree del mondo, l’assenza di predatori naturali, dovuta all’intervento umano o a cambiamenti ambientali, può portare a un sovrappopolamento di alcune specie, con conseguenze negative per la biodiversità. (vediamo ora il problema del sovraffollamento dei cinghiali in tante zone d’Italia. Nda)
La caccia regolamentata diventa, in questo contesto, uno strumento di gestione faunistica: aiuta a mantenere un equilibrio tra prede e risorse naturali, evitando il degrado degli habitat e la competizione eccessiva per cibo e territorio, che potrebbe portare a carestie e sofferenze per gli stessi animali.
Questo è un concetto importante e deve essere ben spiegato, cosa mi dici della vita dell’animale e tu riesci ad essere sicuro che quello che acquisti sia veramente selvaggio?
Dal punto di vista della sicurezza alimentare, la caccia offre la possibilità di consumare carni provenienti da animali che hanno vissuto liberi, seguendo la loro dieta naturale e senza l’uso di antibiotici o mangimi industriali.
Questo si traduce non solo in una carne più genuina e ricca di sapori autentici, ma anche in un minor impatto ambientale rispetto agli allevamenti intensivi, che comportano un consumo significativo di risorse e una maggiore produzione di emissioni inquinanti.
Un animale selvatico vive secondo i propri istinti, in un ambiente in cui può esprimere liberamente i propri comportamenti naturali: caccia, esplorazione, interazione con l’ambiente.
Questo tipo di esistenza, sebbene soggetta a pericoli e sfide, rispecchia la vera natura dell’animale. Al contrario, un animale allevato, soprattutto in contesti intensivi, vive in uno spazio limitato, spesso privo di stimoli e di possibilità di comportamenti naturali.
In un certo senso, scegliere la cacciagione significa anche rispettare il ciclo naturale della vita: un animale che ha vissuto libero ha potuto essere parte integrante del proprio ecosistema, contribuendo all’equilibrio ambientale fino alla fine del suo ciclo. È una visione che va oltre l’aspetto gastronomico e abbraccia un’etica della sostenibilità e del rispetto per la natura.
Noi siamo sicuri sulla provenienza degli animali, lavoriamo e ci rechiamo spesso nelle zone di caccia e abbiamo sviluppato la competenza per capire quando l’animale ha vissuto libero, morfologicamente sono diversi, per non parlare poi del sapore della carne.
Torniamo al concetto di cucina italiana: pensi che sia possibile parlare ancora di “cucina italiana” in un paese in cui sempre meno persone cucinano?
La verità è che, purtroppo, manca oggi una figura di riferimento, come quella che c’era una volta, che tramandava le tradizioni culinarie. La cucina si sta perdendo, e questo è triste. Non credo che possiamo pensare che sia solo la figura materna tradizionale a trasmettere la cucina. Credo che tutti noi, come italiani, abbiamo il dovere di portare avanti la tradizione, sebbene la situazione oggi sia complessa.
Non credi che la responsabilità debba ricadere anche su di voi cuochi? Non avete, in un certo senso, il compito di trasmettere questa cucina?
Certamente, noi cuochi non abbiamo il dovere di “insegnare” al pubblico, ma di “trasmettere”. Il nostro compito è far capire alle persone il valore degli ingredienti, la stagionalità, e l’importanza dell’artigianalità.
Non possiamo pensare che il supermercato sia la risposta a tutto. Con la nostra cucina, per esempio, puntiamo sulla cacciagione, e vogliamo essere pionieri di una comunicazione che rispetti questi valori. matteo vergine
La cucina di un ristorante può davvero essere paragonata a quella di casa?
Il ristorante nasce come estensione della cucina di casa per avventori di passaggio, pensiamo al mitico Cantarelli. Pensiamo a piatti che un tempo si mangiavano in casa, alle grandi libagioni delle feste, li riproponiamo in un ambiente più raffinato, cercando di mantenere viva quella memoria. Per noi, è fondamentale che la gente non perda il legame con i sapori di casa.
Yuri Chiotti, chef del Reis cibo libero di montagna, dice qualcosa di simile: “Dovremmo andare al ristorante non per mangiare quello che non mangiamo a casa, ma per mangiare quello che dovremmo mangiare a casa.” Sei d’accordo? matteo vergine
Sono completamente d’accordo. La nostra missione è trasmettere un gusto autentico, che poi le persone possano riportare a casa e cercare di ricreare, magari in modo più semplice. L’importante è cercare qualità, lavorare con materie prime eccellenti e concentrarsi sulla tecnica di cottura, magari utilizzando la casseruola, evitando le solite creme e salse industriali.
A proposito della casseruola mi trovi completamente d’accordo. Non se ne può più di tutte queste tecniche come il sottovuoto che rendono tutto alla stessa consistenza!
Esattamente. L’industria alimentare tende ad appiattire i sapori e le consistenze per rendere tutto più omogeneo e standardizzato. Ma un palato che si abitua a questi sapori perde la sua capacità di emozionarsi davvero. Dobbiamo lavorare per risvegliare un palato più “politicamente scorretto”, più ricco e sfaccettato.
Perché pensi che la Michelin ti abbia premiato?
In primo luogo, il fatto che la nostra cucina sia interamente incentrata sulla cacciagione, è un elemento distintivo che ci caratterizza. Abbiamo scelto di proporre solo due menù monografici, ciascuno dedicato a un solo animale, per far rivivere il concetto primordiale del cibo: andare a caccia, procurarsi ciò che la natura offre e cucinare con ciò che si trova.
È un ritorno alle origini, a un’idea di cucina che richiama le radici della nostra esistenza. E poi per il risultato gastronomico di questo pensiero. matteo vergine
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Paolo Francesco Mandelli, classe 1969, (pessima annata ) architetto e gastronomo, si occupa dei due bisogni primari dell’uomo: casa e cibo.