Che senso potrà avere la cucina italiana al di fuori delle mura domestiche se in casa quasi nessuno più cucina (almeno nelle grandi città del Nord?)
La cucina tradizionale italiana composta da un primo di pasta o riso e un secondo di carne, pesce e contorno è un modello obsoleto troppo impegnativo da gestire nella società contemporanea?
Ovvio che questo tipo di cucina (forse tutte le cucine) abbia bisogno di un tempo di dedizione alto ed anche di un minimo di conoscenza tecnica e cultura gastronomica.
In casa non c’è più una persona casalinga che si dedica a questa attività con impegno costante, fare la spesa giornaliera al mercato e cucinare con cotture lunghe richiede un impegno difficilmente conciliabile con la vita contemporanea.
Le specifiche diverse esigenze alimentari all’interno di un singolo nucleo famigliare come quelle dei vegetariani, vegani, gluten free, no lattosio complicano ulteriormente la realizzazione di un “menù famiglia” in poco tempo.
Con queste premesse il “delivery” diventa la panacea di tutti i mali.
Dopo la pandemia non si sono registrate flessioni degli ordini nel mondo della consegna di piatti pronti a domicilio, segno che la “cattiva abitudine“ resiste.
Le panacee sono illusioni e presentano sempre il rovescio della medaglia:
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Perdita di identità culturale della nostra cucina
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Perdita di cultura tecnica
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Perdita di identità di palato e di un sapere di sapori reali
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Perdità di salubrità del cibo (il cibo processato contiene elementi chimici di conservazione).
Come sarà possibile gestire questa trasformazione in un paese che fa delle cucina una bandiera nazionale e un business con il turismo?
Da una parte vedo una difesa ad oltranza della cucina tradizionale regionale e delle ricette tradizionali vere in tanti ristoranti della penisola con discussioni sterili ed inutili, come l’uso della cipolla nella Amatriciana o la pancetta nella carbonara e dall’altra la perdita dell‘identità di palato, non avendo più il riferimento della cucina casalinga.
I ventenni attuali hanno più difficilmente mangiato piatti cucinati in famiglia (mi riferisco sempre alle grandi città del nord) e si formeranno su la cucina italiana tradizionale fatta al ristorante da chef che la conoscono meno profondamente nell‘intimo, poiché manca il riferimento casalingo dei piatti della nonna e della mamma.
Nei ristoranti di cucina creativa la situazione non è poi tanto migliore.
Il rifermento attuale è sempre alla cucina del nord Europa delle fermentazioni che hanno certamente un senso a Copenaghen, ma meno in Italia.
Non vedo nessuno che guardi il mare mediterraneo dalla sponda Sud, nessuno che guardi la cucina del Nord Africa con tutte le loro spezie e, nessuno che comincia a fare integrazione partendo dalla cucina…
La ricerca di nuovi sapori identificherà la nuova cucina italiana fatta di contaminazione Mediterranea.
La speranza comunque c’è sempre in noi italiani e alcuni chef già la concretizzano.
Un esempio arriva da Paolo Lopriore ad Appiano Gentile, cuoco talentuoso allievo del divin Marchesi.
Lopriore propone quella che fu la cucina casalinga festiva della famiglia italiana, fatta di materie prime eccellenti a km 0, che si cerca di fare transitare sulla padella in assenza di frigorifero e, trattate come in un tre stelle Michelin.
Il menù è giornaliero, fisso al punto giusto, i piatti sono da condividere e il piatto di resistenza è personalizzabile con salse e contorni e nessuno ti impone ferree regole.
Si ha più l’impressione che un grandissimo chef sia venuto in casa per cucinare a te ed alla tua famiglia.
Sarà forse questa il futuro dell’alta cucina italiana?
Paolo Francesco Mandelli, classe 1969, (pessima annata ) architetto e gastronomo, si occupa dei due bisogni primari dell’uomo: casa e cibo.