Daniel Canzian, fresco presidente dei Giovani Ristoratori Europei (JRE), con una solida formazione marchesiana alle spalle, è forse l’ultimo allievo del Maestro, che lo ha voluto a 28 anni alla guida del Marchesino in Piazza della Scala a Milano. Dal 2013 è saldamente al timone del proprio ristorante DanielCanzian a Milano.
Paolo Mandelli – Qual è il tuo pensiero sul futuro della cucina italiana?
Daniel Canzian – Scusami Paolo, vorrei farti io una domanda prima: come hanno risposto i miei colleghi a questa tua classica domanda? C’è qualcosa di ricorrente nelle loro risposte?
È la prima volta che passo dalla parte dell’intervistato, e devo dire che mi piace questo ribaltamento. Fondamentalmente, molti tuoi colleghi hanno due timori principali. Il primo è che l’industria alimentare si impossessi della cucina del ristorante, così come è successo con la pasticceria, divorata dall’industria dei semipreparati. Il secondo timore è che il modello Deliveroo si appropri della cucina casalinga.
Un’osservazione importante l’ha sollevata Carlo Cracco: l’importanza della qualità all’interno delle guide gastronomiche. Secondo lui, bisognerebbe creare una certificazione della qualità che includa tutti gli attori della ristorazione, non solo i grandi ristoranti. Daniel Canzian
La qualità può essere fatta anche da trattorie, paninoteche, bar e persino da locali lungo le autostrade. Il cliente dovrebbe poter scegliere, in base alle sue esigenze, se mangiare un panino, una pizza o una pasta e fagioli in trattoria. Invece, le guide gastronomiche si concentrano quasi esclusivamente sui grandi ristoranti. La vera discriminante di un locale dovrebbe essere la qualità del cibo, non il locale stesso o i servizi accessori.
Sono totalmente d’accordo con i timori emersi. Aggiungerei anche la paura legata ai fondi d’investimento nel settore food e alle catene di ristoranti.
L’industria alimentare mira alla standardizzazione del prodotto e, di conseguenza, all’appiattimento del palato. Per far sì che quel famoso panino con quel famoso pezzo di carne sia uguale in tutto il mondo e piaccia a tutti, deve esserci un’omologazione di base.
Noi cuochi, invece, dobbiamo essere consapevoli dell’importanza del nostro lavoro nella società. Ora che sono presidente dei JRE, ho l’opportunità di portare avanti un pensiero non omologato. Rischiamo di perdere il patrimonio gastronomico che abbiamo accumulato negli anni.
Per fare questo, dobbiamo resistere alle richieste del potere commerciale e avere una vision morale. Mi spiego meglio: se inserisco nel menu un ingrediente di moda, farò qualche coperto in più, ma andrei contro il mio pensiero etico, che è quello di non adeguarmi, di resistere alle produzioni intensive e di valorizzare i piccoli produttori locali.
Questa tua vision è molto rara. Lasciando da parte i ristoranti alla moda, che non si occupano di cucina ma di intrattenimento, anche nei ristoranti stellati è spesso l’omologazione a prevalere, complice anche il peso delle grandi aziende di forniture alimentari. Non credi che sia fondamentale recuperare il rapporto cuoco-contadino per salvare la cucina?
Direi che è fondamentale. Permettimi una riflessione: negli ultimi anni abbiamo visto molti chef mostrare con orgoglio il proprio orto, trasformandolo in una parte importante del ristorante. Purtroppo, però, in questo processo si è eliminata la figura del contadino. Io vedo invece un rapporto di grande collaborazione con artigiani, produttori e allevatori per sviluppare una filiera sana.
Personalmente, mi vanto di non avere tra i miei fornitori aziende alimentari, acquistando solo da artigiani, coltivatori e allevatori. Comprare un animale intero per poi lavorarlo e utilizzarlo completamente significa anche avere rispetto per il sacrificio che ci ha richiesto.
Questo approccio implica una professionalità necessaria che non è trascurabile. L’utilizzo di prodotti già porzionati e preparati, venduti come aiuto, serve solo a formare una generazione di cuochi poco capaci e quindi facilmente sfruttabili.
Il tema della professionalità del cuoco è cruciale. I cuochi poco preparati diventano preda dell’industria alimentare. Nella tua posizione di presidente dei JRE, hai l’opportunità di portare avanti questa idea. Daniel Canzian
Sento molto la responsabilità del mio ruolo e sono convinto che noi non siamo solo 400 associati: dobbiamo diventare 400 guardiani della biodiversità europea. Uno degli obiettivi del mio mandato è proporre che ogni chef adotti un artigiano agricoltore. La tutela del contadino contribuirà anche alla tutela del nostro lavoro.
Questa idea è l’antitesi del concetto imposto dalle grandi industrie alimentari, che “adottano” uno chef importante per promuovere i loro prodotti.
È un’idea molto valida. Speriamo che si diffonda anche al di fuori dei JRE, perché la paura dell’invasione industriale è più reale di quanto pensiamo.
Mi piacerebbe che questa idea portasse a una cucina più nazionale, regionale e personale. Negli ultimi anni, le mode gastronomiche hanno dettato gli orientamenti di molti chef italiani.
Abbiamo guardato prima alla Francia, poi alla Spagna, e infine al Nord Europa con tutte le sue fermentazioni. Forse è il momento, per noi italiani, di guardarci dentro e riscoprire la cucina regionale, smettendo di sbeffeggiarla con finte trattorie.
Pensi che perdere la cucina casalinga significhi perdere un legame forte con la nostra cultura?
Ovviamente sì. Questa perdita è deleteria. Noi cuochi dobbiamo mandare il messaggio che siamo i custodi della cultura gastronomica e che è importante investire tempo nella cucina e nello stare a tavola, soprattutto in casa.
Sarebbe auspicabile che la famiglia si riunisse per preparare il cibo e per il pasto. L’aspetto fondamentale che vorrei trasmettere come cuoco, al di là della cucina, è il valore del convivio.
Il piatto è un supporto importante, ma non è il fondamento del ristorante. L’importante è stare insieme e stare bene. Dobbiamo eliminare termini come esperienza, percorso e concept: non se ne può più.
Per questa affermazione meriti un applauso! È possibile pensare a un nuovo modello di cucina italiana che parta dal ristorante e sia replicabile in casa?
La domanda è complessa. Mi viene in mente una frase del Maestro Gualtiero Marchesi: la migliore forma di insegnamento è l’esempio.
Nel mio piccolo, continuo a fare una cucina regionale veneta alleggerita e adattata ai tempi moderni. Credo che questo sia il modello da seguire in casa: cotture veloci e ottima materia prima. La cucina italiana è già perfetta così com’è, perché è quella che tutto il mondo apprezza. Dobbiamo proteggerla e non ridurla a una macchietta. Daniel Canzian
Però siamo il Paese che consuma più sushi al mondo, dopo il Giappone.
DC: È vero, ma ti sei mai chiesto perché? La cucina giapponese, per certi versi, è la più simile alla nostra: si basa su grandi materie prime poco lavorate. Il problema nasce quando le materie prime non sono all’altezza: il castello crolla.
In questi anni è giusto riflettere sulla cucina italiana e allontanarci dalle mode per riscoprire il nostro tesoro.
Aggiungo che, purtroppo, l’Italia non ha mai avuto una figura critica di riferimento come Gault & Millau in Francia o Rafa García Santos in Spagna per difendere la nostra cucina. È il momento di cominciare.
Paolo Francesco Mandelli, classe 1969, (pessima annata ) architetto e gastronomo, si occupa dei due bisogni primari dell’uomo: casa e cibo.
Siamo costretti a cambiare qualcosa, lo dobbiamo a noi stessi ,
Per far finta di credere di essere tutti ricchi ci siamo accontentati di prodotti, una volta abbordabili una volta a settimana perché di gran qualità , a robaccia, ma acquistabile tutto i giorni !
Questo ha distrutto l’artigiano/allevatore, che sulla carta sembra stare a cuore a tutti , ma in pratica, quando guardiamo il giusto prezzo di un prodotto fatto a mano, storciamo il naso ed andiamo verso l ‘abominio industriale
Che sia chiaro, un prodotto di qualità non può costare poco, svelo un’altra grande verità, il medico non ci ha scritto che dobbiamo mangiare tutti i giorni quel dato prodotto !
Grazie per un’altra grande intervista
Il Ligure