La figura di Giulio Andreotti della nostra nazione.
Tra chi lo considera l’origine di ogni male che abbia afflitto la repubblica e chi, al contrario, lo ritiene comunque uno dei pochi statisti che la storia recente della penisola abbia prodotti.
Mai come in questo caso sarà la storia a giudicare quale sia la posizione del Divo all’interno del flusso di eventi che sono andati dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
La lunga vita di Andreotti è spesso stata oggetto di ogni tipo di illazione o di congetture, oltre a quanto inequivocabilmente dimostrato in sede processuale.
La sua potenza, in vita, è stata tale che pochi, pochissimi, hanno avuto il coraggio di tentare la rappresentazione che non fosse la macchietta dello sfottò (leggasi Bagaglino e simili).
Sicuramente spicca, in direzione opposta seppur grottesca, Paolo Sorrentino.
Con il Divo, in epoca pre Oscar, il regista napoletano, osò l’inosabile. Facendo centro. Il divo Giulio e il cibo italiano
Però, quello che a noi interessa, al di là degli indubbi meriti artistici del film, è cosa ci racconta del cibo intorno al potere.
Una delle scene centrali, infatti, è l’elogio, un po’ qualunquistico, che Andreotti fa della cucina italiana, nello specifico della amatriciana.
Il divo Giulio e il cibo italiano
La moglie gli prepara dei semplici rigatoni e, al momento dell’assaggio, li condisce con una rivelazione a suo modo velenosa: “Giulio, tu hai un po’ di erudizione, la battuta pronta, perseveranza, capacità di concentrazione e resistenza. Basta, tutto qua. Ti dipingono furbo, colto, intelligentissimo: io dico che non è così.”.
Quanto di più simile alla lesa maestà nei confronti di un personaggio come il senatore a vita ciociaro.
Eppure questo non impedirà all’imperturbabile sfinge demoscristiana di godersi il piatto.
Ma il rapporto del film col cibo non si ferma qui.
Come pensare in maniera diversa allo smisurato ventre dello “squalo” Sbardella, se non come ad un abuso di cene, pranzi, matrimoni e comunioni.
E lo stesso epiteto con cui ci si riferisce ai dc, “mangioni”, ne fa un soggetto politico spirituale, ma decisamente epicureo.
Rendimi casto, ma non subito, diceva Sant’Agostino e, parafrasandolo, sembra che nel Divo si dica “Mettimi a dieta, ma non subito”.
Feste, buffet, tavoloni imbanditi con ogni ben di Dio ai quali i corifei si avvicinano con voracità primordiale, come se fosse l’ultima occasione per saziarsi.
Ma anche i tortellini in brodo nel pranzo in cui Andreotti decide di contrattaccare alle accuse dei pentiti di mafia sono a loro modo protagonisti.
Si mangia, insomma, ma appare chiaro che, è anche il come si mangia ad essere importante. Il divo Giulio e il cibo italiano
La corrente andreottiana (Pomicino, Evangelisti, Sbardella, Lima) ha un approccio col cibo ben differente da quello, tutto sommato semplice, del capo.
Tra nevrosi e feste scatenate, insomma, c’è una vera rappresentazione di quegli anni.
Eppure, alla fine, tutto ruota intorno a quella amatriciana, condita al veleno muliebre, ma non per questo indigesta…