Di Fabio Riccio
Venerdì primo novembre 2013 ho partecipato con molto piacere a Pescara al Cafè les Paillotes alla cena a dieci mani (vedi qui il post a riguardo). A parte la gradevolezza della serata, e l’indiscussa abilità dei cinque cuochi partecipanti che hanno dato davvero il loro meglio, la cena è stata l’occasione per riflettere non solo sull’ottima qualità del cibo e dell’accoglienza, ma sul fatto che in un paio di piacevoli ore sono riuscito a fare un gran bell’excursus in quella che oramai è definita come la Nuova cucina italiana.
Cinque bravi cuochi, uno padrone di casa, gli altri quattro ospiti, formatisi per strade molto diverse nella loro professionalità, che però mirano a un unico e comune obiettivo: quello di ricercare nei sapori, di inventare accostamenti, di affinare la tecnica e talvolta di provocare, ma solo quanto basta, senza però rinnegare le origini e la regionalità di molti dei loro piatti.
Venerdì sera, tra una portata e l’altra ho percepito nettamente il gran lavoro di progetto e di perfezionamento che c’è dietro di quelle che nascono come intuizioni, che poi si trasformano in veri e propri piatti, ben godibili e nel contempo semplici. Nessuna inutile stravaganza fine a se stessa; i sapori sono stati quelli lineari e netti, a tratti anche emozionanti che, con il dovuto pizzico di fantasia che al giorno d’oggi la tecnica nel trattare materia prima permette, tutti vorremmo avere alla nostra tavola.
Altro aspetto positivo della serata è stato il simpatico dopocena chiacchierando in libertà con alcuni dei cuochi presenti, cuochi giovani che senza apparenti timori o reciproche gelosie, hanno narrato il percorso e le intuizioni che hanno portato alla creazione dei loro piatti. Una interessante, e in certi tratti “colta” ricerca dell’emozione…
Gli chef della nuova cucina italiana provano ad essere prima di tutto anche loro stessi gourmet: un approccio che mi sembra corretto.
Invece, mettiamo un il calendario gastronomico di una quindicina di anni indietro. All’epoca, e in più occasioni, pur con la contemporanea presenza sul palcoscenico della cucina italiana di parecchi “mostri sacri” che ancor oggi danno filo da torcere ai più giovani, era cosa comune ascoltare dei pur (a modo loro…) bravi e validi cuochi vantarsi pubblicamente di non assaggiare mai i loro piatti, perché il loro infallibile istinto (sic!) e solo quello, gli garantiva che il piatto era giusto e ben fatto.
Questi signori, bisogna pur dirlo, nella loro sarabanda di piatti da onniscenza gustativa che realizzavano, provando e riprovando senza apparente criterio qualche volta ci “azzeccavano” davvero. Complice anche il momento di transizione della cucina italiana, che ancora barcollante dopo gli anni ’80 e la non del tutto smaltita sbornia della nouvelle cuisine, concepivano piatti interessanti, almeno contestualizzando il tutto al livello medio della cucina e del pubblico dell’epoca.
Alcuni di questi chef, su queste intuizioni, o meglio sarebbe chiamarli colpi di fortuna, hanno costruito effimere notorietà, su cui hanno “campato” per decenni.
Nel nuovo millennio, i gusti e l’attitudine di una certa fascia della popolazione attenta a considerare la cucina senza prevenzioni o luoghi comuni, e l’orientamento della critica sono maturati. Così per la fortuna della cucina italiana, parecchi di questi chef “istintivo-pirotecnici” sono stati relegati in seconda fila, e chissà se con il tempo saranno dimenticati, oppure conosceranno una rivalutazione.
Invece, qualche chef ora non più giovanissimo, ma di certo più dotato e accorto, vuoi per convinzione, vuoi per calcolo, ha provato a ridisegnare l’architettura della sua cucina cambiandola di identità, e in più casi riposizionandola su una diversa fascia di clientela. In certi casi la cosa ha funzionato, in altri no. Però, e parlo per esperienza personale, più di una di queste “conversioni” mi suona come tardiva e sospetta, se non vistosamente “opportunistica”.
La crisi economica di questi ultimi anni, e la conseguente riduzione dei budget familiari e aziendali destinati ai ristoranti, se da un lato ha obbligato parecchi bravi professionisti ad abbassare con rammarico la saracinesca, dall’altro ha aiutato a far pulizia e giustizia di ristoratori estemporanei, di cuochi pirotecnici e di tanti di dilettanti assortiti che si sono buttati allo sbaraglio, ma con pretese “stellari”.
Tornando al tema di inizio, venerdì non ho visto, e tantomeno gustato ne’ una effimera cucina che confonde forni, fornelli e padelle con un laboratorio chimico per improvvisazioni estemporanee, ne’ una cucina (come in certi casi…) che cerca di stupire ad ogni costo con effetti speciali per supplire a una congenita mancanza di idee.
Ho semplicemente avuto il piacere di gustare un ottimo ventaglio di piatti, alcuni molto buoni, altri “emozionanti”, preparati da cinque abili cuochi che si rifanno fortemente a questa Nuova cucina Italiana. Cinque giovani, ormai già affermati che però lasciano molto ben sperare per il futuro della cucina abruzzese, ben ricca ormai di tante meritate “stelle”.
In chiusura, vorrei ricordare un altro punto positivo di questa nuova cucina italiana, che in mia modesta opinione è la riuscita “saldatura” tra quanto desidera un cliente normale, magari solo amante della buona tavola e non un “gourmet”, cioè piatti comprensibili e non cervellotici, sapori poco artefatti e sensazioni godibili, con la cucina che richiede il cliente più smaliziato o il critico gastronomico. E’ quasi una quadratura del cerchio. Vi sembra così poco?
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?