Di Fabio Riccio
Solita serata in enoteca, o per meglio dire: in drogheria.
Appena messo piede nel locale, uno degli osti di riferimento, anche se molto affaccendato con l’affettatrice subito ci avvisa: ragazzi stasera c’è una mortadella da sballo, da orgasmo gastronomico anzi…
Il tempo di salutare due amici già arrivati a fine pasto, e ordino subito pane e mortadella.
Cari lettori gastrodeliranti, concedetemi una piccola “ode” a questo roseo prodotto di salumeria che tanto ha glorificato nel mondo la felsinea città del dottor Balanzone. Una ben fatta mortadella di “rango” a mio modesto avviso è uno dei cibi più buoni e goduriosi mai visti sulla faccia della terra. Ogni tanto penso che come Esaù per le lenticchie, facilmente potrei disfarmi della mia primogenitura per un etto di Mortadella.*
Serena, non per fare il bastian contrario, ma semplicemente per preferenze gustative, o forse perchè non è primogenita, opta invece per un bel panino (destrutturato però…) di Patanegra con pomodori, e scusate se è poco…
Evasa con successo la pratica del cibo, come al solito rimane il consueto busillis sul cosa bere.
Uno degli osti di riferimento, ben sapendo i gusti in famiglia, tira fuori subito l’asso dalla manica. «Ragazzi, ho quello che fa’ per voi: Le Canon rouge 2013 – è un bel rosso francese assolutamente naturale, fatto da un signore Giapponese che vive in Francia»
Senza indugi accettiamo.
L’idea che un Giapponese pianti su due piedi il suo ipertecnologico paese per fare il vignaiolo in Francia mi affascina.
Spingendo forte sull’acceleratore della (mia) fantasia, immagino questo distinto signore, (che solo dopo ho scoperto chiamarsi Hirotake Ooka – in patriaun affermato chimico)che un bel giorno, magari con la poco credibile scusa di dover andare a comprare le sigarette (non fuma…) oppure di fare una partitella a pachinko alla sala giochi sotto casa, saluta velocemente i suoi cari, e senza neanche il conforto dello spazzolino da denti, salta sul primo aereo per la Francia e taglia i ponti con il suo passato, trasferendosi in un paesello della valle del Rodano per trasformarsi in un valente Vigneron.
Chissà, magari è andata proprio così, oppure no – indagherò a riguardo!
Però, e come già detto in precedenza in altri post, da un po’ di tempo quando sono di fronte a una bottiglia o a un produttore che non conosco, provo ad approcciarmici non tecnicamente, bensì istintivamente ed emozionalmente, lasciando alla tecnica il ruolo di comprimario, ribaltando così gli schemi precostituiti di certa enologia paludata con la puzza al naso da “tanto al chilo”.
Voglio dire… che del vino che vado a degustare cerco di avere il minimo delle informazioni possibili, in modo da farmi coinvolgere in maniera “emozionale” cercando di evitare i condizionamenti che inevitabilmente possono arrivare anche solo dal leggere un‘etichetta, o qualche articolo sula stampa o sul web.
Le considerazioni tecniche, sempre che servano, le lascio al dopo, a “bocce ferme”.
Così… il nostro Le Canon rouge 2013 di cui so’ ben poco, arriva in tavola dopo che il bravo oste gli ha dato una breve “rinfrescata”.
Ragazzi… vabbè che è un rosso che va bevuto a temperatura ambiente, ma siamo appena dopo ferragosto, e il termometro ambiente supera bellamente i 25°, quindi la “rinfrescata” per portare il nostro Le Canon a 18 – 20° è cosa buona e giusta.
Appena aperto, subito la prima sorpresa: il Le Canon friccica e schiumeggia come e più di un Lambrusco da pizzeria medio-Padana.
E’ solo un po’ di ri-fermentazione, tutto qui, niente di grave – il vino è vivo, esplosivo, esuberante, meno male!
Provo ad immaginare la scena se a tavola invece di uno dei miei bravi osti di riferimento, ci fosse stato il Sommelier ACCA o uno dei suoi similari paludati in giacchetta & tastevin… ACCA avrebbe immediatamente gridato al mondo intero che il vino è “difettato”, e senza indugio alcuno, lo avrebbe incasellato nella poco nobile categoria dei “vini da lavandino”.
Ma diamine… basta con ‘sta solfa della perfezione, un attimo di rifermentazione, un sospetto di volatile o un lieve sentore di ridotto non sono un dramma, anzi!
Conoscete voi un essere umano perfetto?
Beh… questa razza di studiosi della perfezione enologica, che generalizzando sono il sommelier Acca & i suoi tanti, troppi accoliti enofighetti, nel vino cerca la perfezione, ma solo quella formale.
Ma… questa “perfezione”, che troppo spesso si trasforma in banalità – è proprio come quella di certi esseri umani, apparentemente perfetti, ma in realtà scontati e noiosi, come e peggio di una replica di una tribuna elettorale della televisione Svizzera.
Pochi minuti per far placare al Le Canon la sua friccicosa esuberanza, e poi nel bicchiere rimane quello che davvero conta: il vino – alias succo d’uva fermentato. Il vino – nudo e crudo.
Appena è nel calice il Le Canon rouge 2013 si palesa come vino che non conosce filtrazioni invasive e poco rispettose, visto il suo rosso profondo, forse solo un attimo di troppo torbido.
Ma è al naso che arriva la prima sorpresa, con un inusuale e per me fascinoso sentore di frutti rossi alternato a muffe varie, quasi da Stilton, o gorgonzola molto stagionato.
Una volta a contatto del palato, arriva la seconda sorpresa: la china, si proprio la china calissaia.
Il Le Canon mi ricorda da subito, a parte una doverosa nota acida, il Barolo chinato, ottima e gustosa “invenzione” (in origine un antipiretico…) di un bravo farmacista di Serralunga d’Alba in Piemonte, il famoso Dottor Capellano.
A questo punto, il cuore si apre e percepisce l’emozione – non ci sono parole… il Le Canon mi piace, mi emoziona, pur, e specialmente nella sua apparente atipicità e nel suo essere candidamente un vino fuori dal coro.
Sì, miei cari lettori gastrodeliranti, Il Le Canon per un bel quarto d’ora buono mi ha ricordato (incredibile ma vero) il Barolo chinato!
Intanto si inizia a mangiare. La mortadella è strepitosa e il Le Canon rouge 2013 alla faccia di chi sbraita sugli assiomi incontrovertibili delle accoppiate cibo/vino, si accompagna senza problemie con una certa lievità al prodotto simbolo della città di Bologna, ma anche al Pata Negra di Serena.
Passa il tempo e il vino fatto (allevato…) dal vigneron arrivato dal sol levante si evolve e non smette di affascinare.
A bottiglia (ahimè) quasi terminata, la nota amara di china scema, e pian pianino esce fuori il vino, nella sua giusta struttura e la sua (quasi) travolgente acidità.
C‘è il sole e la pioggia in questo vino, c’è l’estate ma anche una sensazione di un non-so-che’ di ancestrale, difficile da esporre a parole, ma che di sicuro smuove a dovere le sinapsi e le papille gustative.
Frutta rossa, ribes in bacche, pomodoro e mandorle amare – ancora un po’ di china, ma anche acido e un giusto sentore alcolico, impertinente solo quel poco che basta.
Al palato è allappante, forse un po’ troppo, ma è un bene, perchè basta un piccolo sorso per espungere in maniera elegante i sapori, così da passare senza traumi e strascichi gustativi dalla mortadella ai pomodori, e al Patanegra…
A bottiglia finita, e con la memoria enoica satolla di bello, ecco qualche nota tecnica (quanto basta) per descrivere ulteriormente questo gran vino.
Le Canon Rouge, il vino “da battaglia” del signor Ooka, è un matrimonio fra i vitigni principali delle sue vigne cioè Syrah, Cinsault, Grenache, Viognier, Marsanne in varia proporzione, con il primo (forse…) in maggioranza.
Il bravo signor Ooka prende il concetto di “naturale” veramente alla lettera. Fondamentalmente, lascia che le sue vigne facciano quello che vogliono. Minimalismo Zen applicato in vigna?
In caso di capricci del tempo e malattie varie, il buon Ooka non fa’ più di tanto.
Questo stile di vinificazione può apparire “folle” a chi fa’ solo un mero discorso economico, perchè comporta grossi, grossissimi rischi. Ma il risultato, quando tutto va’ dritto è davvero magnifico, e cosa più importante completamente trasparente.
Dichiara candidamente il signor Ooka – «Quando è buono è molto buono, ma è un modo difficile per guadagnarsi da vivere, parliamo di un vino che arriva nel bicchiere ancora scalciante».
Un vino godurioso che persegue un‘idea di fondo molto bella. L’equilibrio in perenne movimento, ma dalla semplice beva. Quando è buono, è un vero gioiellino – proprio come l’altra sera in drogheria.
Tutti i vini del signor Hirotake Ooka non vedono SO2 aggiunta, e la vinificazione è meticolosa, specialmente per l’igiene, per evitare inconvenienti spiacevoli.
Questo gran lavoro, alla fine lo si coglie bene nel bicchiere, dove la ricerca della giusta misura di piacere, e di un raffinato e peculiare gusto è chiaramente percepibile.
Tutti i vini di Ooka entrano dalla porta principale senza bussare, regalando piccole e luminose gioie, facendosi subito ben voler bene, questo anche grazie a gradazioni alcoliche davvero basse, forse figlie della macerazione carbonica utilizzata però solo per cinque giorni.
Per finire, il nostro Le Canon fa solo vetroresina per sei mesi. Poi salvo complicazioni varie, o fermentazioni birichine che non si mettono in moto nei mesi canonici, dopo i travasi di rito va dritto in bottiglia.
Un vino raro, vero, difficile da reperire ma incredibilmente affascinante. Di questi tempi non è poco. Tutto qui, Stop.
“C’è tanta passione nelle sue bottiglie”, dice Alice Feiring, autrice di The Feiring Line, la nota newsletter sui vini naturali.
“I suoi, sono vini naturali davvero hard-core, selvatici ma convincenti. E‘ facile dare caratteristiche umane ai suoi vini. “
* Bella forza, sono figlio unico…
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?
Degustato ieri sera in enoteca insieme ad un piatto di bigoli con le sarde, dire che ci stava bene è poco!
Anche con un paio di luganeghe scottate mi è piaciuto!
Questo signore giapponese non so se sia un pazzo, oppure un genio (io propendo per la seconda ipotesi).
Un vino semplicemente incredibile, folle quasi, un vino che spiazza chi lo beve, e fa mettere in discussione tante certezze, specialmente quelle che mi hanno inculcato quei marchettari che anni fa’ mi hanno fatto i loro noiosissimi e sfacciatamente di parte corsi vari di vino e compagnia cantante…
Premetto che ieri sera uno dei miei “maestri” era in enoteca, e per curiosità gli ho fatto assaggiare un dito di Canon Rouge.
Risposta da parte sua appena assaggiato…
– ma Gino, tu hai il coraggio di bere questa robaccia? Ma allora tutto quello che abbiamo fatto e provato nei corsi non ti entrato in testa?
Neanche il tempo di metterlo in bocca e subito mi ha ridato il calice…
Mentalmente l’ho mandato in mona, e dopo 10 minuti ne ero già innamorato del Canon, tanto che neanche finita la prima bottiglia, ne ho comprata un altra da portare a casa, costa anche relativamente poco!
Un vino davvero arduo, diseguale e moltissimo differente in ogni annata. Non é per tutti, questo é chiaro, ma dalla sua ha il suo essere “vero” come pochi altri vini riescono a esserlo. Io lo ho degustato in Francia l’anno scorso, e non pensavo che in Italia avesse estimatori, meglio cosí. Forse in Italia qualcuno inizia ad accorgersi che della “grande bufala” che ha trasformato tanti e tanti vini convenzionali in quello che è l’ombra di quel che potrebbero essere senza tutte le esagerate magie in cantina e dopo…
Non so chi sia il distributore Italiano del Domaine de la Grande Colline, ma in rete c’è una “boutique” che vende questo e altri vini a prezzi decisamente corretti e con spedizioni veloci anche qui in Italia.
Vedi – http://www.vinscheznous.com/
C’è un distributore in italia?
Oppure un qualche link di dove comprarli online?
Vendono anche in Italia?
Ok, bene. Sara’ anche un gran vino e non lo metto in dubbio, ma come per altri vini recensiti su questo sito, dove trovarli, oltre che su interet? Grazie,