Breve cronachetta “differita” dal Vinitaly 2025 – Padiglione Trentino
Una scossa al vino naturale che molti non vogliono sentire
Nel cuore della fiera, la scheggia cortese.
La solita babele di etichette ripetute, barbe curate col pettine di legno d’ulivo – ma pur sempre firmato – e quel lieve profumo di lieviti selezionati che ti si attacca alle narici come l’odore persistente che ti assale non appena osi entrare nei negozi in una nota “firm green” britannica di shampoo e cosmetici ipernaturali.
Poi, come una quieta scheggia impazzita (ma di gran gentilezza e chiara professionalità), eccolo lì: Nicola Biasi. Un enologo – aggiungo e preciso, non naturale.
Ma attenzione: Biasi è uno che ci crede, che non gioca a fare lo sciamano , che non si profuma di terroir mentre versa solfiti col contagocce. È uno che il vino lo pensa, lo fa, lo racconta – senza avvelenare vigne o cantine di robaccia, senza vestire la chimica da progresso o la biodinamica da fede.
Un professionista serio, tecnico, competente, che non ha bisogno di travestirsi da artigiano per convincere nessuno.
Parlarci è come aprire una finestra in una cantina chiusa da vent’anni. E l’aria che entra si chiama PIWI. Piaccia o meno.
Cosa sono i PIWI, e perché danno fastidio
No, non è un acronimo per vini vegani con vibrazioni cosmiche e esoterismi a buon mercato.
PIWI sta per Pilzwiderstandsfähige Rebsorten, ovvero vitigni resistenti ai funghi. Roba vera, roba da futuro.
Vitigni ibridi (no, non incroci intraspecifici alla maniera dell’Incrocio Manzoni), creati per non collassare sotto le canoniche sciagure del vigneto moderno: peronospora, oidio, botrite, marciumi, vendette divine e cambiamento climatico incluso.
In parole povere: vigne che crescono senza trasformare il vignaiolo in un farmacista medievale armato di rame e disperazione.
E qui casca l’asino. O, qualsivoglia equino a piacere del lettore.
Anzi, ci casca tutta la filiera (troppo…) conservatrice del vino italiano.
Perché sebbene testati, approvati, coltivati e vinificati in mezza Europa da gente sveglia, in Italia i PIWI restano trattati come alieni da laboratorio, figli di un dio minore.
Già visto, già sentito. Ricordi del Villard bianco e nero?
I vitigni della sopravvivenza, poi condannati (almeno in Europa…) all’oblio da disciplinari “snob” – con la scusa di una remota possibilità di tossicità da alcol metilico, quello residuale creato da quel po’ di DNA di vitis non vinifera…
Eppure quei Villard, c’erano. E ci sono ancora e, vengono su bene senza trattamento alcuno, come sotto casa del mio amico Antonio, che nelle sue campagne del Molise parcheggia trattore (vecchio…) e macchina (più recente) sotto un pergolato di Villard bianco che non vede da più di quarant’anni nessun trattamento di sorta.
Ed è più resiliente di molti vitigni più blasonati (e… nominati) e che vinificato nel suo garage senza nulla, se non due decine scarse di milligrammi di solfiti prima di finire nell’unica damigiana prodotta, regala un bianco dal profilo sensoriale affatto banale, anzi…
Si: conosco un vignaiolo naturale inconsapevole!
I PIWI Disturbano tutti. Anche certi “naturali” da vetrinetta
Sì, perché se da un lato l’agroindustria li teme – perché vendere rame e consulenze fa girare l’economia – dall’altro una certa naturalità da passerella li schifa o nel migliore dei casi, volutamente li ignora.
Li guarda storto. Li considera “non naturali”.
Perché?
Perché non hanno nonni famosi.
Perché (secondo alcuni…) in realtà non sono vinifera al 100%.
Perché mandano in tilt l’estetica da cantina bucolica, da calice col fango e da etichetta con citazione zen.
Ma, parliamoci chiaro…
Io, che scrivo, sono – pur senza paraocchi ideologici né scorciatoie pratiche – graniticamente dalla parte del vino naturale. Sempre. Senza se e senza ma.
Ma proprio per questo, per coerenza e onestà, dico che il vino naturale in questo momento ha bisogno di evolversi, non di sclerotizzarsi. Di aprirsi, non di chiudersi.
Oggi ci sono PIWI coltivati senza chimica, vinificati senza trucco & senza inganno, ben più naturali di molti vini “naturali” che girano in fiera col pass stampa e l’autoreferenzialità addosso come fosse un badge.
Eppure, c’è chi si impunta: “Se non è vinifera pura, non è vino!”
Come se i cloni brevettati di oggi fossero usciti da una foresta vergine.
Come se non sapessimo tutti che anche la vinifera moderna è un prodotto da vivaio, altro che Adamo ed Eva.
I PIWI fanno paura. Perché mettono in crisi.
Mettono in crisi l’agroindustria, certo.
Ma soprattutto mettono in crisi il naturalismo nostalgico, quello che scambia il torbido per autenticità e la puzza per sincerità.
Perché i PIWI non sono torbidi per forza.
Non vengono vinificati da sciamani col quarzo e il medaglione al collo.
E spesso, sono semplicemente buoni.
Puliti. Precisi. Vivi. Senza l’ansia da prestazione del “naturale certificato Instagram”.
E quando qualcuno li lascia liberi, questi vitigni resistenti parlano.
Vedi Thomas Niedermayr.
Un vignaiolo vero, che i PIWI non li usa, li vive.
Li coltiva senza enoporcate, li vinifica senza ombrelli chimici, li lascia essere uva.
Senza pozioni, senza scorciatoie, senza fumo negli occhi e fermentati con i lieviti che a vario titolo madre natura sparge sui grappoli… 
I vini di Thomas? Ottimi e, per un palato attento e ormai piuttosto “tarato” per i naturali come quello del sottoscritto, con tanti sentori e richiami sensoriali che li contraddistinguono come tali ma, talmente “normali” che rischi di non accorgerti che sono PIWI, e questo è il massimo dei complimenti.
Il naturale ha bisogno dei PIWI. Anche se ancora non lo sa.
Perché il vino naturale non è un museo.
Non è nostalgia imbottigliata.
Non è il ricordo del vino del nonno travasato in bottiglie da 750ml con l’etichetta da formaggino anni ‘60.
È una scelta agricola e di etica. È visione.
E i PIWI sono un’occasione per rimettere insieme agricoltura pulita, identità e futuro.
Un ponte tra ciò che era e ciò che può essere.
Non saranno di certo le DOCG di domani.
Ma, nonostante questo crescono, silenziosi, come certi strepitosi vini sloveni o georgiani che se li trovi ti ribaltano il palato e il pensiero.
E se davvero vogliamo che il naturale sia un movimento e non una nicchia per “iniziati”, allora serve dirlo forte:
I PIWI possono far parte del vino naturale.
Nonostante le etichette.
Nonostante le paure.
Nonostante i puristi della purezza che confondono il terroir con il talebanismo agricolo.
Postilla per eno-nerd (e per vignaioli che non si nascondono sotto al banco)
I PIWI derivano da incroci tradizionali (non OGM!) tra Vitis vinifera e varietà resistenti americane o asiatiche.
Vengono retro-incrociati per preservare il profilo organolettico vinifera-like, e oggi varietà come Solaris, Bronner, Souvignier Gris o Johanniter mostrano tolleranze altissime a peronospora, oidio, botrite.
Risultato?
Trattamenti: minimi.
Emissioni: ridotte.
Stress agronomico: quasi nullo.
Futuro? Presente.
E se poi in cantina non filtri, non aggiusti, non stupri e per poi salvarti la faccia profumi, se fai fermentare spontaneo, senza correzioni né lifting, allora spiegatemi:
Cosa c’è di più naturale di così?
P.S. Alcune delle immagini presenti in questo articolo sono state generate dall’intelligenza artificiale. Il testo dell’articolo assolutamente no.
Credit: https://www.gastrodelirio.it/fabio-riccio/villard/2018/03/

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?