La memoria è anche odori, sapori e sensazioni.
Supermercato sotto casa.
Sperso tra mille dubbi “dolci tipici”, c’è un involucro in plastica trasparente di cartucce napoletane.
Non le mangiavo da quando avevo undici anni, rarissimo trovarle fuori Napoli e dintorni.
A casa, subito apro la tristanzuola confezione e, perdonatemi l’ardito paragone proustiano, basta l’odore per palesare l’ennesima mia personalissima madeleine…
Note anche come babanielli (e persino bananieelli…) le cartucce napoletane forse sono i dolci più vintage della pasticceria napoletana.
Un tempo immancabili nei vassoi dei dolci secchi, alias quelli da offrire insieme al caffè (logicamente moka da otto tazze!) nelle visite pomeridiane degli ospiti di riguardo, le cartucce napoletane paiono scomparse dall’orizzonte delle pasticcerie moderne, pur sopravvivendo in qualche laboratorio dolciario di periferia.
Forma slanciata, involte in carte da forno variamente decorate, con chiari ed eleganti sentori olfattivi di mandorle, ricordano la forma delle cartucce per i fucili da caccia.
Un peccato averle relegate nel dimenticatoio, perchè questo dolcino grosso modo grande quanto un dito, ha dalla sua non solo il bel sapore e una rassicurante e golosa consistenza, visto che è a base di mandorle, ma anche un aspetto coreografico originale, anzi scenografico!
L’origine è incerta.
C’è chi azzarda analogie (solo di aspetto) con un babà in miniatura (da qui babanielli), e c’è chi le vede come un’invenzione per le necessità dolciarie estive, dove la conservazione di dolci e dolcetti con creme, prima della diffusione dei frigoriferi, era problematica.
Resta il fatto che, le cartucce per me sono davvero delle madeleine, visto che in un pomeriggio, mangiandone una scatola da 25, mi si è scatenato un tal putiferio di ricordi in calzoni corti come non accadeva da tempo.
Le cartucce napoletane, per me e per tanti figli del baby boom anni ‘60, sono state anche un goloso ibrido tra un dolce e un giocattolo.
Perchè… una cosa essenziale per godere delle cartucce napoletane, è sempre stata lo svolgerle dalla carta!
Azione che esige abilità, poiché meno impasto resta sulla carta e più si è bravi.
Però, e come tutti i bambini dell’epoca, avevo in mano la soluzione!
Prima mangiavo la mia buona cartuccia, poi con l’ausilio di lingua e denti, alla faccia di ogni convenzione e galateo, ripulivo accuratamente la carta con tanto di teatrale slinguata finale per eliminare ogni minimo residuo di impasto, il tutto sotto lo sguardo fulminante dei genitori, inorriditi dalla poco ortodossa azione, soprattutto quando in casa avevamo ospiti “di riguardo”…
P.S. – Le cartine delle cartucce, dopo l’uso a volte venivano usate per (improbabili, lo so…) origami o aeroplanini cartacei, non atti al volo…
P.S. 2 – Non ho notizie certe ma pare che, pur con piccole differenze siano anche diffuse in Salento.
Qualche lettore ha notizie a riguardo?
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?