Di Fabio Riccio,
Avviso: preparate i fazzoletti.
Questo è in buona parte un articolo noioso, intriso di sentimentalismo e smodatamente zuccheroso, tanto che ne sconsiglio la lettura ai diabetici, e non solo per l’argomento trattato…
Il sottoscritto è meridionale, anche se con sangue, frequentazioni e influenze che vanno dalla Campania al Piemonte, passando (in ordine sparso…) per Lombardia, Slovenia, Molise, Sicilia e Sardegna e altre che non sto qui ad elencare…
In parole povere sono un Italiano, in prevalenza meridionale con natali, cognome e principale stirpe a Napoli, e da tanto vivo in Molise. Stop.
In virtù di questo (anche se proprio non c’azzecca nulla…) quando si parla di dolci, è facile immaginare che per me il vassoio domenicale di pastarelle è un rito irrinunciabile.
Si, un vero e proprio rito laico, di più: un assioma incontrovertibile.
Per me, una domenica casalinga non è domenica, se a fine pasto non si scartoccia il canonico vassoio di pastarelle. Fine.
Chissà… forse è questione di cuore più che questione di gusto.
Andando un po’ indietro nel tempo, alla mia infanzia nella Napoli anni ’60 del secolo scorso, il vassoio domenicale delle paste, a quel tempo era un vera e propria liturgia intoccabile, che accomunava quasi tutte le classi sociali.
Anche i meno abbienti, se possibile, provavano a non farsi mancare sul desco domenicale un dolce finale.
Il vassoio domenicale di pastarelle, per alcuni era segno tangibile ed evidente di un raggiunto status sociale.
Proprio per questo, era importantissimo nel corso della domenicale passeggiata prima di pranzo, esibire in bella vista il pacchetto della pasticceria con il suo regolamentare fiocco, compito che i capifamiglia affidavano quasi sempre ai bambini, con sottintesa la terrificante minaccia (detta sottovoce) “se fai cadere il vassoio con le paste ti rompo la testa”!
Vabbè, direte voi, sei il solito romanticone, ma a noi lettori gastrodeliranti che ce ne frega dei tuoi ricordi di pasticceria?
Nel ventunesimo secolo, (ormai) vanno di moda dolci & dolcetti di dimensioni ridotte, come gli ormai onnipresenti mini-macarons, e quelle che una volta venivano chiamate mignon, ma la sostanza non cambia, a parte la prepotente invadenza dei semilavorati dolciari in tante, troppe pasticcerie…
Salvo qualche specifica eccezione, in Italia negli anni ’60 le mignon, intese come “dolci freschi” e non secchi, erano popolari solo nelle pasticcerie di Torino e dintorni, altrove erano viste come un ripiego, una eccentricità…
Ed ecco che parlando di Piemonte, entra in campo uno dei miei gastroricordi più vividi, nello specifico quando per la prima volta da bambino prescolare sono stato in Piemonte in visita al parentame vario.
Non dando attenzione al clima diverso, alle affascinanti e regolari geometrie del reticolo stradale della ex capitale sabauda, e perfino alla Mole Antonelliana, da buon gastrodelirante in erba sono invece rimasto colpito e ammirato dalla profusione di bignole nelle vetrine di ogni pasticceria torinese.
Si, proprio loro, le bignole.
Piccole, vezzose, colorate e invitanti, le bignole sono un minuscolo e sommesso inno alla golosità, espressione di un solo apparente basso profilo, cosa che caratterizza (in positivo) un certo modo di essere piemontese, e ancor più torinese, modo forse ormai scomparso.
Le bignole, nome che deriva dall‘italiano bigné, a sua volta tributario dal francese beignet, sono un caposaldo della pasticceria torinese e piemontese, e per chi non lo sapesse, nascono come dolce di carnevale.
Un piccolo guscio di pasta dolce, lievitata e rigonfia, dalla forma arrotondata ripieno di golose creme che accarezzano e stimolano il palato.
Bello anche lo scoprire che i colori delle glasse delle bignole non sono affatto casuali, ogni colore corrisponde a un gusto… il verde per pistacchio, il beige per la nocciola, il rosa per lo zabaione ed il marrone per il cioccolato, sempre se la memoria non mi tradisce…
Così, è stato bello sapere che anche lassù, sulle rive piemontesi del Po, lontano dal Vesuvio, si officiava, pur con nessuna ostentazione il medesimo rito domenicale, solo che il vassoio veniva chiamato cabaret…
Una scoperta per me quella delle bignole, un amore a prima vista quello con i multicolori vassoi geometricamente organizzati, amore che per qualche tempo ha perfino rubato il mio cuore ai miei amatissimi babà, alle zuppette, alle sfogliatelle e agli sciù, che per chi non lo sapesse, sono la napoletanizzazione del termine francese choux…
Però messe da parte le trasferte sabaude, e l’apoteosi di bignole e gianduia, una volta rientrati a sud, si ritornava al solito dolce e rassicurante tran tran domenicale del vassoio di paste...
Oggi a pranzo c’è lo zio Gigino con la zia Maria, dopo la carne mica vuoi fargli trovare solo il caffè… quindi paste assortite.
Pasticcere!
Un vassoio di opulenti bignè (gli sciù), di cannoli crema gialla, e di succosi babà, quelli normali e quelli con la crema, e tante sfogliatelle (riccie o frolle?), le zuppette (nome che solo a Napoli indica il diplomatico), il ministeriale (ma solo da Scaturchio!)…
Ma lo Zio Gigino è goloso, sono tanti, lo spazio non basta!
Quindi, per favore signor pasticcere, c’è da cambiare vassoio, se prendo quattro sfogliatelle, quattro sciù e cinque babà, in quello piccino il tutto non ci sta!
Allora, il pasticcere, omone paziente e accomodante ne prende uno più grande. Il rito dell’aspersione dell’obbligatorio liquore sui babà, e poi posa il vassoietto sulla colonna di carta con scritto a caratteri cubitali il nome della pasticceria, e con poche e sicure mosse, impacchetta il tutto cingendolo con un nastro dorato dal nodo inestricabile, nodo che è il vero sigillo di ogni dolcezza. Si paga… e arriva finalmente il momento di affidare il pacco.
“Reggilo anche da sotto, altrimenti ti cade!”
Appena usciti dalla pasticceria, forse un po’ ebbro dalla profusione di odori, afferro il pacco per il nastro dorato, e così portandolo a spasso in bella vista, partecipo e officio anche io il rito…
Quiete domeniche familiari, quiete domeniche anni ’60…
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?