Alla ricerca del buon vino
Ovvero… ci vorrebbe ancora Mario Soldati
Di Fabio Riccio,
No, niente paura, non temete cari lettori di questo blog, anche questa volta l’avete scampata bella!
Non sto progettando un remake di un noto racconto del mai troppo compianto Mario Soldati.
Solo che ultimamente, e in più occasioni incappo per svariate in vini sempre meno potabili.
A volte sono (certi) temibili vini “sfusi” conservati (malamente) in contenitori di fortuna, a volte invece sono vini imbottigliati con tanto di etichetta fatta carina carina a norma di legge…
Come mai?
Partiamo da un assunto: secondo me, la maggior parte delle persone che acquistano, oppure si procurano una qualche bottiglia di vino, non si preoccupa minimamente della sua origine, della zona di provenienza ne’ del colore di quel vino.
Queste persone, certi vini li bevono sempre e comunque, a prescindere da tutto, anche se fossero color Puffo o di sapore abominevole, solo perchè “tradizionali”, perché il nonno faceva così, o perché qualcuno dall’alto di qualche pulpito gli ha detto che sono buoni. Stop.
Qui è il punto: qualcuno ha detto che è buono…
Una dimostrazione di questo stato delle cose, l’ho avuta pochi giorni fa, al termine di una bella cena gastrodelirante decisamente suina (porceddu sardo e budella varie), con lo staff di gastrodelirio.
A pasto quasi ultimato, terminata la nostra seconda rituale bottiglia, eravamo molto indecisi se stappare o meno una terza. Ma ecco che dal tavolo vicino con fare gentile risolvono il nostro problema, offrendoci dei calici di un vino (rosso) che definiscono “Malvasia salentina”.
Pensiero graditissimo, evviva!
Piacevole e condivisibile la voglia di simpatizzare tra avventori, cosa diventata rara nell’Italia appiattita e guardinga del ventunesimo secolo….
Fatti del genere dovrebbero succedere più spesso.
Evviva!
Però…
Vino in dama in plastica da cinque litri, chiaramente riciclata.
Tappo disperso.
Nessuna etichetta, probabilmente autoprodotto…
Vabbè, a caval donato…
Arrivano i nostri calici.
Il colore è bello (ma trovatemi un vino discutibile sul piano cromatico, a parte gli orange wine che invece a me incantano)…
Ma… basta un attimo al naso, e tra il poco o niente di qualsivoglia altro sentore, deflagra un vero e proprio uragano di volatile, alias per i “non tecnici” acido acetico.
Ora, i lettori affezionati di gastrodelirio sanno bene che il sottoscritto non è uno di quelli che nei vini cerca ad ogni costo la perfezione, anzi.
Ho scritto tante volte che un indizio di volatile, un minimo di ridotto, un po’ di ossidazione (adoro i vini ossidati) etc etc non sono difetti, come spesso gridano a squarciagola certi sommeliers sempre a caccia della perfezione formale, ma solo componenti della piacevolezza complessiva di un vino.
Modica quantità, insomma.
Però… cari lettori gastrodeliranti, questa sedicente Malvasia Salentina mica era un vino, era una bomba chimica a base di acido acetico.
Sniffare una bottiglia di aceto di mele, oppure un tubo di silicone del mio amico idraulico Rosario era lo stesso.
Peccato che non avevo a portata di mano una bella insalata….
Però, e visto che una seconda possibilità la si concede a chiunque, decido di aspettare.
Normalmente, i (piccoli) sentori di volatile “volano via” in fretta, e normalmente lasciano lo spazio al vino vero e proprio.
Qui nulla, anzi.
Dieci minuti di attesa nel calice.
Provo a tirare fuori qualcosa di individuabile da questo liquido.
Nulla, non bastano le canoniche rotazioni del bicchiere, nessun risultato neanche shakerandolo!
Nel fluido rosso (non degno di essere definito vino) di certo era ancora in atto una qualche misteriosa reazione chimica che produceva quantità inusitate di acido acido acetico, mai visto roba del genere…
Penso a Blade Runner…
Avvilito, oso anche un assaggio.
Portato alle narici con circospezione e cautela, il fluido rosso si dimostra per nulla vinoso, ma in compenso emana sulfurei sentori di fiammiferi minerva appena spenti nell’acqua…
Il tempo però lo da’ la volatile, che copre tutto, non c’è storia.
Al palato non ustiona la lingua, ma corpo zero da top model anoressica, sapore dolcino monocorde da Rosolio di Nonna Papera addizionato a sciroppo per la tosse, e infine (forse…) un vago sentore di acido, non acetico questo, forse solforico…
Stop.
Vino? Meglio chiamarlo aceto…
Così, i calici (salvo una defezione) rimangono angosciosamente pieni sul tavolo.
Mai accaduto a una cena di gastrodelirio!
Decisamente un vino da… lavandino! Stop.
Povero Mario Soldati che andava alla ricerca del buon vino, si rigirerà ulteriormente nella tomba….
A questo punto potrei mettere la parola fine alla faccenda, ma ci sono da fare delle considerazioni.
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Perchè i gentili, anzi, gentilissimi signori nostri vicini di tavolo, persone palesemente non alla ricerca del buon vino, hanno invece gioiosamente sbevazzato per tutta la serata con quello che forse anche a termine di legge può essere chiamato aceto tout court? Fanno forse parte di una “confraternita” di adoratori di aceto? Lo bevono solo per la quantità di alcol presente nel liquido e per la sua funzione di “lubrificante della socialità”? Forse.
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Possibile che proprio nessuno in quel tavolo si sia accorto che quel fluido dal simpatico colore rosso era una roba imbevibile buona (forse) per condire l’insalata o per conservare i carciofini? Forse.
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Possibile che anche uno degli avventori a tavola, un gentile signore che ha anche velleità di “gourmet” non si sia accorto di aver pasteggiato ad aceto? Che forse forse… l’aceto aiuta la digestione? Forse.
Qui ritorna il mio incipit.
Alla ricerca del buon vino… ma dove?
Ma come?
Come ho scritto prima… tanta gente beve (e mangia anche) solo perché qualcuno, chiamiamolo “opinion leader”, li convince che quel che c’è nel calice (o piatto) è cosa buona, anche se fa schifo, oppure perché loro hanno sempre bevuto e mangiato così e sono convinti di essere nel giusto, brutto a dirsi, ma vero.
Per spacciare per buono un vino come questa sedicente malvasia salentina, ci vuole coraggio, per berlo ancor di più!
Medesimo discorso anche per certi temibilissimi vini da rimessa (non uso il termine vini da garage, perché hanno una loro dignità) e anche per alcuni vini “modaioli”.
Questo è un caso limite, e la mia “analisi” forse un po’ ruspante, ma vi siete mai chiesti quanti pessimi, o per meglio dire imbevibili vini hanno avuto (anche) successo per queste ragioni?
Passaparola?
Pubblicità?
Marketing?
Autoconvincimento?
Il nonno faceva così?
Nostalgia di quando i mulini erano bianchi?
Eppure… lo stillicidio del trovarmi tanti pessimi vini sulla mia strada continua.
Finirà?
Lo spero.
Alla ricerca del buon vino
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?
L’Italia è piena zeppa di presunti estimatori che scambiano l’aceto per vino buono…