Di Serena Manzoni
Abbiamo la memoria corta…
Sono giorni caldi d’estate, chi può si rifugia in qualche angolo di spiaggia per trovare un po’ di illusorio sollievo da questa vita troppo ingorda: ogni volta che arrivo al mare guardo quante persone leggono e cosa leggono. Vorrei dare un suggerimento, qualcosa da leggere sotto l’ombrellone che magari ci faccia tornare un po’ di memoria, di un passato nemmeno troppo lontano. Tra una pagina e l’altra passeranno i soliti venditori di paccottiglia con torri di cappelli sulla testa e milioni di chilometri nei piedi. Vi siete mai chiesti dei loro pensieri? Delle loro speranze? Dei loro ricordi? Dei loro gusti?
Come sempre non vengo mai al dunque prendendo deviazioni per arrivare alla meta, ovvero consigliarvi la lettura del romanzo di Salvatore Adamo La notte… l’attesa edito da Fazi Editore
L’autore è proprio lo stesso di “Affida una lacrima al vento” e “La notte”, ma non si tratta di un’autobiografia, è soprattutto una storia d’amore. Il protagonista, come l’autore è figlio di italiani, siciliani di Comiso emigrati in Belgio negli anni sessanta per andare a lavorare nelle miniere di carbone. Le vicende di Julien, a volte disperate altre volte divertenti, sono intrecciate dal fil rouge della memoria. Ed ecco perché voglio che lo leggiate, per sgranchire un po’ la memoria di italiani che da sempre emigrano per sfuggire dalla miseria.
Scusate le mie parole semplicistiche, ma troppe volte in questi giorni, con o senza i piedi pucciati nel rigenerante mare, sento parole che mi turbano, su barconi e emigranti e noi che li dobbiamo mantenere e noi che però emigravamo per lavorare…
La lettura di Salvatore Adamo, ci riporta un’esperienza di prima mano che ci dice della vita nelle baracche, del paese lontano e delle morti tragiche per esplosioni nelle nere miniere di un passato immediato. Sono i genitori del protagonista infatti ad aver lasciato la Sicilia per trovare la speranza e Julien decide di abitare nello stesso quartiere dove le baracche dei minatori sono diventate casermoni di cemento delle nuove cité dove abitano i nuovi emigrati.
Nel libro si parla anche di cibo, soprattutto cibo italiano, cibo della memoria come ricordo di un viaggio in Sicilia per assistere il nonno morente, cibo mitico gustato in una “domenica d’azzurro e zafferano, dal sapore di latte di mandorle e dal gusto di arancini, di mustata e di granita al limone”.
Cibo che rimanda ad una terra lontana, quasi omerica: “avevo ritrovato il branco di capre che scendeva per la strada al mattino presto in un piacevole tintinnare di campanelle. Il pastore ne mungeva una su richiesta e raccoglieva il latte, ancora schiumoso in una scodella di stagno. Non si parlava di sterilizzazione, omogeneizzazione, lo si beveva schietto, autentico, ed era inebriante, e come amavo la ricotta che se ne faceva, servita su foglie di bambù: le cruveddi…”
Cibo arcaico, che in una sola generazione si muta in Julien nella sua voglia di cucinare un buon piatto per le persone che ama.
Torniamo al nostro ombrellone, vi capiterà magari che guardandovi attorno troverete persone dai nomi italiani e dalla lingua tedesca o francese, magari in quel che rimane del loro italiano c’è una grossa spinta dialettale.
Siamo noi. Ce ne siamo andati perché avevamo fame, avevamo dei figli a cui dare un futuro. Siamo scappati da una terra povera.
Abbiamo sudato e sofferto. Siamo morti per esplosioni di grisou. O abbiamo fatto fortuna. I nostri figli cucinano per le persone amate piatti che ricordano la nostra terra. Talvolta tornano al paese per le vacanze.
Questo libro ce lo ricorda.
Serena Manzoni