…tutta colpa di Botticelli
Di Stefano Capone
Ci sono tre cose che mi irritano particolarmente nei pranzi delle cerimonie: il fatto che tutti sanno sempre dove si trova il ristorante tranne me, gli abiti di raso con orlo diagonale delle parenti più strette e… il guscio di capasanta nell’antipasto di mare.
Tralasciamo il primo punto che ritengo, ahimè, segno sempre più probabile di un mio freudiano senso di inadeguatezza.
Sorvoliamo il secondo, frutto del cinismo dei venditori di abbigliamento che, in tali occasioni, assottigliano sensibilmente il loro campionario anni ’80, approfittando biecamente della candida ingenuità di zie e cugine.
Ma il timore di imbattermi in una famigerata “capasanta destrutturata” ha molte volte messo in forse la mia partecipazione agli allegri festeggiamenti di amici e parenti.
E così, anche questa domenica, dilaniato da un dibattito interiore molto aspro, accetto, non senza dubbi, l’invito alla cerimonia di turno ed al relativo banchetto, rassicurato, soprattutto, dall’ottima caratura del ristorante scelto.
Tutto fa sperare bene.
La location, i tavoli, il servizio, il numero limitato di invitati, la cucina a vista, il vino.
Le possibilità di un buon pranzo si fanno concrete…
Anche se la lettura del menù lascia spazio a qualche timore: antipasti freddi e poi antipasti caldi senza troppe indicazioni.
Aleggia il sospetto.
Partiamo.
Gli antipasti freddi ben fatti, materia prima eccezionale, sapori delicati e freschi, spunti di spezie ben dosate.
Un calice di falanghina molisana e avanti con gli antipasti caldi…. i più pericolosi.
Qui ci si gioca tutto. O la va, o la spacca.
Infatti… la spacca.
La intravedo in lontananza. Il cameriere avanza tronfio verso di me e la sagoma, inizialmente vaga, diventa sempre più nitida. Non ci voglio credere. C’è.
Accanto ad uno splendido scampo in pasta Kataifi, un delicatissimo sgombro in saor con cipolle caramellate e succulenti capparoni con polpettine di pane al cumino, la presenza ingombrante del guscio bianco di una capasanta, terribile inibitore di ogni libidine gastronomica.
Non ne ricordo bene neanche il contenuto. Per una sorta di legge non scritta, c’è quasi sempre, come anche in questo caso, un simpatico manipolo di gamberi sgusciati annegati in qualche salsa.
Il tocco di classe un bel gratin.
Io mi chiedo: quale colpa originale ha la capasanta per non poter vivere di vita propria e dover prestare la propria nobile valva agli usi più impropri.
Quando va bene diventa piatto di portata, ma la troviamo spesso nelle vesti di stendardo, bomboniera, presepe e nel peggiore dei casi posacenere.
Eppure la Pecten jacobaeus, nome scientifico del nostro mollusco, ha i numeri per affrontare, molto più spesso, nella completezza di entrambe le valve, ogni banchetto.
Il suo frutto saporito, con la noce bianca e soda ed il corallo arancione e cremoso, si presta ad ogni preparazione, cruda e cotta, di altissima qualità.
Se proprio vogliamo pensare ad un colpevole di tutto ciò mi viene in mente Botticelli che nella sua Venere ne fece addirittura rinascimentale canotto.
Dignità alla capasanta.
Stefano Capone