Di Fabio Riccio
Qualcuno leggendo il titolo si chiederà il perché di questo inusuale accostamento.
Andiamo per ordine.
Sono statol’11 maggio 2014 a Navelli (AQ) per seguire la terza edizione di “Naturale” – per i dettagli vedi anche – https://www.gastrodelirio.it/fabio-riccio/naturale-terza-edizione-2014/2014/05/ – tra i non pochi espositori presenti, ho ritrovato il bravo Giulio Armani, che avevo conosciuto in passato in occasione di una bella degustazione dei suoi vini.
E così a Navelli… tra un assaggio e un altro, avevo deciso anche di comprare una bottiglia da riportare a casa, per centellinarmela con la giusta calma. Senza andare nei particolari, devo dire che a Navelli con i vini si fanno buoni se non ottimi affari: il buon Armani per il suo Dinavolo 2008 mi ha fatto un prezzo davvero speciale, ma non vi dico quanto però!
Tornando all’argomento di apertura, qualcuno di voi si chiederà cosa diavolo è il “gattò”. Voglio rassicurare tutti i lettori animalisti, ma il gattò non è un felino “da forno” dotato di accento sulla coda, ma semplicemente il quasi-francesismo con cui a Napoli e dintorni viene chiamato il gâteau di patate.
Culinariamente, almeno per quel che riguarda le preparazioni, la mia cucina casalinga guarda molto a quella popolare napoletana, questo sia per ascendenze familiari, sia peri miei natali partenopei.
Il gattò è un piatto che mi viene quasi sempre bene. La “mia” ricetta è quella piuttosto sfumata e vagamente jazzistica tramandatami dalla mia nonna paterna, Assunta.
La cucina però non è una scienza esatta…
Ricetta sfumata e jazzistica nel senso che… come per il Jazz, mia nonna con il gattò partiva da un “canovaccio” e poi improvvisava a seconda di quel che aveva sottomano o nel frigorifero.
Secondo i dettami di mia nonna, erano però essenziali ben cinque cose: le patate, prima lessate e poi schiacciate, il pepe, una o più uova per tenere insieme il tutto, l’immancabile uovo sodo tagliato in pezzettini e qualche formaggio da far squagliare. Tutto il resto per la mia progenitrice era pura e limpida improvvisazione.
Non vi sembraun piatto “Jazz”? Chissà se Miles Davis ha mai assaggiato il gattò di mia nonna Assunta…
Per i più affamati, una buona ricetta “standard” del gattò è questa – http://www.lucianopignataro.it/a/il-gatto-di-patate-napoletano-tramandato-da-quattro-generazioni/38462/ –
Tornando al mio gattò dell’altra sera, dopo gli ingredienti di rito per non scontentare lo spirito della progenitrice, dentro l’impasto di patate oltre gli ingredienti canonici ho aggiunto: del pecorino non troppo stagionato, un po’ di buon San Daniele avanzato da pranzo tagliato a fini listelli, un pizzico di parmigiano e un po’ di farina doppio zero per tentare di tenere meglio insieme il tutto, causa patate da supermercato saporite, ma un po’ molli.
Con il Gattò già bello che fatto (consiglio di mangiarlo freddo, è più buono!) arriva il fatidico momento della cena.
Serena è a casa, tavola imbandita e… Gattò di patate accompagnato dal Dinavolo 2008 Giulio Armani. Chissà se il bravo produttore della provincia piacentina ha mai provato il suo vino insieme al gattò…
Beh..c’è poco da dire, i vini di Armani sono un qualcosa che semplicemente spiazza chi non li ha mai bevuti.
Per i suoi bianchi, qualcuno ha azzardato il termine “Orange Wine“, per le lunghe, talvolta lunghissime macerazioni a contatto con le bucce, che cromaticamente nel calice si traducono in ammiccanti tonalità ambrate.
Il Dinavolo 2008, è semplicemente fatto di Malvasia di Candia Aromatica, Ortrugo e Marsanne, che in Val Trebbia è chiamata “uva francese”, e come quasi tutti i bianchi di Armani non va’ assolutamente bevuto freddo.
Un vino senza nulla e basta, un vino “nudo”, un vino vestito solo dell’idea, delle emozioni, e del sapere di chi lo fa’.
Parliamo di un bianco possente e complesso, che con soli 12° è ben più strutturato di tanti rossi di “bassa macelleria” che per trovare un po’ di corpo, vengono letteralmente imbottiti di scarti di falegnameria vari.
Al naso parte subito bene, con un sentore rivierasco di salato, che subito lascia il passo a note di frutta secca e susina, dove nascosta tra pieghe e profumi, c’è già una certa mineralità. Il Dinavolo in bocca è subito avvolgente, e sfoggia la sua opulenza insieme al suo essere tannico, che è un piacere che non ci si aspetta.
Lasciandolo quieto per un po’ nel suo calice (cosa molto difficile, perché va via che è un piacere) il Dinavolo svela agrumi dolci e fiori, ma anche miele, rosmarino, salvia, e finanche un fondo amaro-salato di capperi.
A questo punto, i soliti soloni e gli “opinion leader” in giacchetta che tanto adorano i vini fotocopia, messi di fronte ad un bianco come questo, che nel colore non è proprio… bianco, inizierebbero il solito sterile e inconcludente strepitio di difetti, di volatile e altro.
Va bene che per certi standard, o per il sentire comune degli enofighetti di provincia non siamo di fronte a quello che in molti vorrebbero da un vino bianco, ma vivaddio, questo è veramente un vino che scalda il cuore, un vino da meditarci su‘ per ore, un vino adattissimo ad essere centellinato magari in poltrona, leggendo un buon libro.
Ma è anche un vino che si può bere in cucina, in semplicità a casa propria per rilassarsi dopo una giornata di lavoro.
Il Dinavolo già dopo pochi sorsi è inciso nella memoria, ma è anche un vino che non ti fermeresti mai di bere, un vino complice sia da soli che in compagnia, un vino ruffiano quanto basta…
Tornando a quel che c’è in bottiglia, (se non è già finito…) con il crescere della temperatura trova ancora più equilibrio, ma anche maggiore acidità, e con gli ultimi sorsi fanno capolino anche sentori di aghi di pino bruciati e lychees.
Un vino gastrodelirante davvero, che a mio giudizio pur in un quadro gustativo-olfattivo che qualcuno si ostina a definire “estremo”, si può accostare facilmente a parecchi piatti, sia di terra che di mare. Provateci…
Prova lampante di tutto questo? Il gattò di patate e il Dinavolo 2008 si sono dimostrati ottimi compagni!
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?
Onestamente… Io il dinavolo l’ho bevuto con di tutto un po’… L’ulltima volta ho accostato il dinavolo anche con le melanzane alla parmigiana, e ci stava benissimo! Ciao Giulio!