La gastrointervista a Nicolò Scaglione

In Italia la cucina è un fenomeno di costume, in Francia di cultura.

Nicolò Scaglione

Di Paolo Francesco mandelli,

Nicolò Scaglione, l’anticritico, rappresenta una nuova forma di critica gastronomica. Nicolò non è al servizio degli appassionati clienti dei ristoranti, ma degli stessi chef: la sua è una consulenza retribuita che aiuta lo chef a guardare il mondo da un altro punto di vista. Un solido bagaglio culturale e un palato tecnico affinato in migliaia di assaggi ne fanno un grillo parlante contemporaneo.

Nicolò Scaglione

PFM. Ciao Nicolò, raccontaci chi sei per i nostri lettori.

NS. Sono un filosofo di formazione. Per anni mi sono occupato di cinema, letteratura e musica. Poi, intorno al 2008, ho iniziato a occuparmi di cibo per passione e per l’interesse che avevo verso il mondo del latticino. Nicolò Scaglione

Piano piano ho cominciato a esplorare quella zona di confine tra artigianato e produzione industriale. Ho continuato quel viaggio, e in dieci anni ho recensito circa 1500 artigiani del cibo, tutti raccolti nel mio sito Il Sapere dei Sapori.it

Per interesse poi mi sono spostato nel mondo della ristorazione, un po’ perché mi piaceva andare a mangiare, un po’ perché avevo trasformato il mio palato in uno strumento estremamente tecnico, che mi ha permesso di lavorare nella consulenza. Oggi vivo di consulenza e insegnamento.

Su cosa si basa il tuo lavoro con gli chef?

Si basa su tre grandi aree: il pensiero, ovvero la riflessione su cosa stai facendo e dove vuoi andare; il prodotto, cioè la ricerca degli artigiani con cui lavorare; e infine il palato. Ho raggiunto una buona costruzione del gusto, per cui, quando ci mettiamo ad assaggiare e analizzare prodotti tecnicamente, cerchiamo di costruire piatti coerenti con un pensiero.

È un lavoro difficile, anche perché ti scontrerai con chef dall’ego smisurato.

Lavoro solo con persone che, più o meno, possono comprendere ciò che dico. Non posso lavorare con una catena di ristoranti: non è il mio mondo, ma non per arroganza, proprio per una diversa concezione del mondo. Nicolò Scaglione

L’ego smisurato, secondo me, deriva spesso dal fatto che non ricevono domande vere, oppure non riescono più ad accettare le critiche.

Se una critica viene fatta in privato, senza microfoni o possibilità di scrittura, quasi tutti sono in grado di controbattere.

Io un po’ di “dissing” nella mia vita li ho fatti, certo, ma oggi lo chef poco intelligente è quello che non accoglie la critica come crisi etimologica. Se non entri in crisi davanti alla critica, il problema è tuo. Lavoro tutt’oggi con persone con cui, la prima volta, sono stato duro, e proprio per questo hanno voluto lavorare con me. Pensare alla critica come occasione di ricrescita.

Nicolò Scaglione

Ti hanno definito l’anticritico gastronomico.

Quella definizione mi è sempre piaciuta. Non so perché non l’abbia più utilizzata. Sicuramente, però, avrebbe fatto girare le palle a qualcuno.

Partiamo con la mia classica prima domanda: qual è il futuro della cucina italiana in un Paese dove si cucina sempre meno?

Comincerà con la distruzione degli idoli, delle origini, dei simulacri e dei falsi miti. “La carbonara si fa così”, “l’amatriciana si fa così”, “il panettone si fa così”. Sono tutte puttanate.

Il povero Luca Cesari, su Gambero Rosso, ha ricevuto anche minacce di morte quando ha cercato di spiegare che la carbonara, così come la conosciamo oggi, esiste solo da 35 anni. Prima si faceva con altri ingredienti: pancetta, peperoni, altri formaggi.

Le ricette si sono sempre evolute. A meno che non ci sia un’origine certa, come lo spaghettino freddo di Marchesi o la pesca Melba di Escoffier, tutto il resto è tradizione orale, omerica. E l’origine si perde nel tempo, influenzata da tantissime variabili. La cucina italiana sopravviverà se riuscirà a sopravvivere a se stessa. Nicolò Scaglione

E ci sta riuscendo, perché oggi in Italia ci sono straordinari cuochi che stanno ponendo le basi per le cucine casalinghe del futuro, a patto che esistano ancora luoghi domestici adibiti alla preparazione dei pasti.

Basta con gli Artusi, basta con Ada Boni. Basta con i “si deve fare così”.

Creiamo una nuova cucina italiana, fatta da Scabin, Cracco, Bottura, Romito, Baronetto, Di Fabio e Gipponi e tanti altri grandi cuochi italiani.

Che siano loro a scrivere il ricettario da tenere in casa tra cinquant’anni. Abbiamo bisogno di una nuova riscrittura della carbonara, della pizza, della pasta al pesto.

A proposito di grandi cuochi: non pensi che l’alta cucina si stia allontanando dal cibo stesso e che lo show sia diventato la parte fondamentale del menù? Penso ad Alchemist.

Rasmus Munk fa una cosa unica nel mondo, costosa, mi verrebbe da dire. In un certo senso anacronistica: tiene in vita il tecno-emozionale spagnolo degli anni 2000. La sua cucina si basa sul junk food, che è il suo cibo preferito. Il gusto è sempre basico, dolce e sapido.

Non c’è variabilità. L’esperienza è lunghissima, quindi spesso intollerabile per la maggioranza delle persone. Io sono entrato alle 17 ed uscito alle 23:40, digerendo più volte e cambiando ambienti. Però Rasmus ha creato una sorta di parco giochi gastronomico visionario, e quello che vediamo è solo una parte.

Se hai la possibilità di entrare nelle sue cucine di ricerca, capisci che è una vera e propria università, con strumentazioni uniche.

Ma è ancora cibo? Nicolò Scaglione

È un’esperienza che tutti gli chef dovrebbero concedersi almeno una volta nella vita, per vedere cosa significa avere così tanti soldi a disposizione e poter fare una scelta. Molti mi hanno detto: “Se avessi avuto quei soldi, avrei fatto altro”. Probabilmente anch’io. Lui ha deciso di fare quello: la spettacolarizzazione della cucina.

Lo show è interessante. È come andare alla finale dei Mondiali o al Super Bowl: è un momento unico.

Quindi, arrivando alla tua domanda: Alchemist è ancora legato al cibo?

No, è legato alla ricerca applicabile al cibo.

È un’università che ha le risorse per sperimentare.

Il cibo è interessante? Sposterà qualcosa nel mondo della cucina? Probabilmente no. Perché Ferran Adrià c’è già stato.

Non avrà lo stesso impatto di Ferran?

Ferran ci ha aperto il mondo: ha preso varie parti delle cucine del mondo, ci ha messo davanti alla realtà e ci ha detto: “Ragazzi, noi possiamo prendere una struttura, cambiarla totalmente attraverso quello che l’industria ha fatto e portarla a tavola sotto forma di assaggi, allungamento del menu, restrizione dei passaggi, e quindi diminuzione della quantità dei piatti.” Quindi: minimalismo.

Però arrivava anche dalla cultura spagnola delle tapas, che noi non avevamo. Paolo Lopriore mi ha detto che per la pasta, secondo lui, ci vogliono almeno 120 grammi per capirla e noi italiani siamo abituati al ripasso, che finiamo con la scarpetta il ragù.

La pasta è difficile. Alessandro Negrini, dopo essere stato dai fratelli Roca, diceva: “Ho mangiato 25 antipasti.” Un po’ ha ragione, però è “anti” nel doppio senso: anti-contro e anti-prima, cioè prima della pasta e contro la pasta. La pasta è un problema gigantesco nel momento in cui tu la devi mettere nel menù. Andrebbe isolata — l’ho scritto anche nel mio libro:” Sul Gusto “ (Manetti Editore, n.d.a.). Sul concetto di tapas non sono così d’accordo.

Cioè, il menù di Ferran era esplosione, era guardare cosa facevano i giapponesi con la cucina kaiseki, sicuramente guardare quello che loro avevano in casa, e un po’ pensare proprio al concetto di esperire tutta una serie di percezioni palatali che fino a quel momento non si erano mai esperite.

Fino a quel momento la cucina era buona, straordinaria o cattiva. Da quel momento la cucina diventava una forma che andava al di là del sapore, ed entrava nella consistenza.

Fino a quel momento è come se le consistenze non fossero state un problema di nessuno: si cucinava, si cuoceva, punto.

Marchesi però già aveva lavorato sulle consistenze della pasta.

Sì, è vero. Marchesi lavorava sulle consistenze della pasta, ma lì si stravolgeva totalmente il concetto di palatabilità. Quando assaggiavi un suo piatto per la prima volta dicevi: “Wow, io non ho mai sentito questa cosa.”

Non pensi che noi critici gastronomici dovremmo interessarci anche alle cucine delle scuole? Nicolò Scaglione

Certo, è fondamentale. Se tu vuoi fare una rivoluzione culturale devi partire dai bambini. Mao, nella sua distopia, ce lo ha insegnato: dopo la conquista del Tibet, la prima cosa che ha fatto è togliere la religione e la lingua tibetana dalle scuole elementari.

Se tu vuoi creare una forma mentis, devi partire da lì, dai bambini di sei anni. Non puoi certo dire a un uomo di 35 anni come deve mangiare.

Detto questo, sia il Ministero della Cultura che quello dell’Istruzione, e le persone che si occupano di questi argomenti, dovrebbero contattare cuochi giovani come Floriano Pellegrino, Davide Guidara ecc., perché loro riescono a parlare la lingua dei ragazzi, anche quella dei ragazzi delle periferie.

Loro potrebbero fare la rivoluzione della melanzana.

Noi vecchi borghesi milanesi con la “erre moscia” non possiamo spiegare a un ragazzo quanto è figo mangiare la melanzana invece del panino del McDonald’s. Noi non abbiamo nessuna credibilità.

Ministri e governo avrebbero bisogno di figure che vengono da una temperie culturale simile e che riescano a far scegliere la melanzana invece del Big Mac. E li nutri in una maniera corretta. Allora sì, su questo progetto io sarei il primo a volerci lavorare. Ma deve partire tutto dall’alto.

Se parte dall’alto, si fa un progetto serio: non si parte dalle mense ma dalle piazze di periferia. Andiamo nei McDonald’s di periferia a vedere quanto sono pieni.

In questi ristoranti il problema fondamentale è la super-processazione degli alimenti, cioè — come diceva giustamente Carlin Petrini di Slow Food — i prodotti industriali sono pieni di zucchero, di sale e grassi, in quantità enormi. La nuova povertà è basata sullo zucchero: nuovo oppio dei popoli marxista.

Brillat-Savarin, in un suo aforisma, diceva: “Il destino delle nazioni dipenderà dal modo in cui si nutrono.”

Verissimo ma gli Stati hanno sempre avuto una visione contraria. Poi il solito circolo di intellettuali si focalizza solo sull’etichetta: “Bisogna fare così!”

Bisogna andare dritti contro la povertà, perché la povertà non ha opinione. La povertà, se è rimasta povertà, è perché qualcuno ha voluto che rimanesse povertà. Non è che il povero dice: “Mi piace restare povero.” Lo Stato deve lavorare su questo. Qualche Stato ha lavorato sulla politica alimentare: penso a qualcosa nel Nord Europa, nelle Repubbliche Baltiche.

Anche Stati che non hanno una grande cultura gastronomica — e in questo può essere molto utile anche l’arrivo delle guide gastronomiche importanti.

Per uno chef giovane, avere un modello ispirativo nel proprio paese — e non solo nelle grandi città come Parigi o New York — lo porterà a pensare che non dovrà per forza emigrare, ma che ci sia una possibilità concreta anche a casa propria.

Affrontiamo il fine dining. Hai scritto che spesso il fine dining viene affrontato con disattenzione, un po’ come sentire Šostakovič nella suoneria del telefono.

È vero. Nel fine dining comune il problema è proprio quello: l’ignoranza e la ripetizione di forme non capite.

Pensi che la Michelin sia un po’ responsabile di questo?

La Michelin sicuramente è corriva e correa: è semplicistica ed è corresponsabile, perché l’esperienza dovrebbe essere fatta nella propria totalità. È ovvio che nel momento in cui tu entri in un ristorante e trovi delle cover di cover, fatte con una banalità sconcertante per accontentare il cliente, e per non avere il coraggio di presentare il proprio pensiero, l’approccio è già sbagliato.

Quasi tutti i ristoranti sono derivativi. Poi ci sono quelli che sono proprio oltre il derivativo: inutili.

Hanno poco senso culturale, poco senso estetico, nessun senso etico, e non hanno teoretica alle spalle. E però hanno la loro stellina.

Questo è proprio il problema reale del fine dining, e la gente si è rotta le palle di questa roba qui. E allora continua ad andare dai soliti 50 d’Italia che fanno una grande cucina. Altrimenti vado in pizzeria o in una trattoria di alto livello, dove sto bene. Il problema è che il segnale sembra non arrivare.  Nicolò Scaglione

Secondo te si può separare la tradizione dall’alta cucina? E in un paese dove si cucina sempre meno, chi sarà il nuovo archetipo della cultura gastronomica?

Fortunatamente 25-30 chef in Italia si sono staccati dalla tradizione. La maggior parte no, e continua a lavorare sulla tradizione, sulla nonna, sulla memoria, sulla noia. Distaccarsi è molto difficile, perché devi fare un lavoro intellettuale e lasciare il tuo cliente senza un riferimento, lasciandolo nudo.

Detto ciò: chi sarà l’archetipo della nuova cucina italiana? Chi riuscirà a riscrivere la cucina italiana? Ne parlo tanto con tutti gli chef che in questo momento stanno cercando il modo di riscrivere quella che sarà la cucina del futuro. Non di rivisitare o scrivere balle, ma di mettere i piedi nei piatti della tradizione e riscrivere il classico.

Cioè, capire perché la pasta con le vongole si è sempre fatta col Tavernello, quando noi in Italia avevamo la Vernaccia di Oristano e a Oristano si è sempre fatta con la Vernaccia, Ma per tutto il resto d’Italia non è la tradizione.

E quando tu assaggi la pasta con le vongole sfumata con un vino ossidativo ti fai una domanda, e dici: “Perché noi non abbiamo sempre usato quella?” E io spero che tra ottant’anni la nostra pasta con le vongole tradizionale sarà con la Vernaccia. Che l’Amatriciana sarà con l’aglio. E la Carbonara con la panna, ecc.

Sei d’accordo con l’affermazione di Yuri Chiotti: “Dovremmo andare al ristorante non per quello che non mangiamo a casa, ma per quello che dovremmo mangiare a casa”?

Insomma, così uccideremmo la cucina da un punto di vista intellettuale, come forma d’arte. Invece io sono sempre di più portato al mecenatismo, alla forma d’arte, alla sperimentazione come interesse primario del mio modo di vivere il mondo. No, quindi ti dico no.

Tu scrivi: “Credo che la gastronomia debba tornare a impegnarsi, a rendersi conto di sé ed eliminare i vizi come base sociale.” La spieghi meglio? Nicolò Scaglione

Se la base sociale della gastronomia è lo stappatore di champagne Krug, la gastronomia sarà sempre ferma al palo, non promuoverà un passo ulteriore, sarà sempre legata al compratore e mai alla cultura. E la cultura si basa su persone che non possono permettersi grandi ristoranti.

Quindi dobbiamo arrivare, attraverso l’università — e spero di riuscire a farlo a creare dei tavoli di ricercatori, dei tavoli di pensatori, in cui tu in cambio non avrai i soldi, ma avrai il pensiero. Altrimenti la base sociale sarà sempre questa, viziata, e mai un’altra cosa.

La tua base sociale sarà giocoforza la gente che spende soldi e non ci mette il pensiero. Il problema è quasi irrisolvibile, a meno che non ci si metta a fare degli affari con l’università, cercando di fare una lotta perché la cucina non sia più democratica.  Perché se la cucina è democratica, tutti pagano la stessa cifra.

Ma oggi è gravissimo, per uno che fa una cucina di ricerca, non avere uno scambio intellettuale forte con persone che provengano da altri mondi culturali e umanistici.

Dovrebbero pretendere di avere dall’università 5 storici, 5 filosofi, 5 letterati che vengano qua gratis, e che in cambio mi diano una pagina scritta di pensiero. Sì, si può fare. Bisogna trovare le persone che lo vogliono fare.

Poco tempo fa ho intervistato Antonia Klugmann e mi raccontava che le è piaciuto tantissimo il film Il Gusto delle cose con Juliette Binoche. Questo film rappresenta un po’ quel tavolo a cui aspiravi tu prima?

Antonia è una chef straordinaria. Lei non si occupa neanche del riempimento delle pance. Da Antonia ci devi andare se c’è una dialettica, altrimenti lascia stare. Ci sono persone che non possono mangiare ovunque: devono andare a mangiare solo nei posti dove mangiano sempre la stessa cosa.

Succede come nel cinema: non è che puoi portare chiunque a vedere i film di Sokurov o di Kiarostami. Fagli vedere Fast and Furious, ma non è un problema.

Però esistono cinema di intrattenimento e cinema d’arte. Così come nella cucina. La differenza sostanziale è che in Italia la cucina è un fenomeno di costume, mentre in Francia è un fenomeno culturale. Nicolò Scaglione

Nicolò Scaglione

 

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