Progetto LOCAL: comprensorio e fruibilità dello stesso, caciocavalli esoterici, pecore vere e fantasmi bonari tra i calici…
Il Gargano, lo ammetto, mi ha fregato di nuovo…
Non con i soliti tramonti da social manager o con le scenette da food experience, quelle costruite a tavolino per gli appassionati di selfie in cerca di “autenticità” a pacchetto.
No. Questa volta mi ha fregato sul serio, con le mani nodose e temprate di un casaro “vero”, con le lastre di pietre color luna e con l’odore pregnante di un ovile.
E poi, c’è anche quella pasta filata che ancora mi tiene sveglio di notte. E non per la digestione…
Tutto così comincia da Lesina – località che pochi conoscono davvero e che molti snobbano da lontano, mentre dovrebbero andarci in ginocchio.
Da qui parte il progetto LOCAL, con un press tour educativo organizzato da Lesina laguna di Puglia.
Educativo però si fa per dire: più che apprendere, si disimpara
Si disimpara a parlare di ruralità come se fosse una categoria di marketing e si disimpara a pensare che un filtro ben piazzato davanti un obiettivo sia la soluzione di tutto.
Lesina giorno uno Cena sul lago
Approccio decisamente morbido, come è morbido e placido il panorama del lago quando gli sguardi, anche dei forestieri volgono al tramonto. progetto local
Ma già nell’aria si sente che questo non è l’ennesimo giro organizzato con pseudo focaccia barese, pomodori secchi & taralli inclusi…
Fermo azione, è tardi!
Si va tutti a dormire, e a Lesina ormai si dorme benissimo e, per fortuna, in tante strutture di buon livello.
Caciocavallo Bramante – ovvero, l’esoterismo caseario esiste!
Appena varchi la soglia della Masseria Paglicci, nei dintorni di Rignano Garganico, capisci subito che mica sei in gita. Qui bolle qualcosa, e non solo nei pentoloni.
Dopo averlo visto nascere tra calderoni ribollenti e le sapienti mani dei due casari, il giovane e lo “stagionato”, arriva il primo attore: lui è ciccioso, stagionato, col sorriso di chi ben sa di essere un gran bel pezzo di… Caciocavallo, appunto.
Basta un’occhiata e sei suo. E non scherzo.
Al naso ti prende a schiaffi (quelli buoni): burro acido, fieno maturo, un animale selvatico che ti sussurra all’orecchio cose sensuali e indicibili per il comune senso del pudore…
Poi, qualche nota mandorlata, e un’eco umida di cantina vera – non quelle da spot, ma quelle della nonna, con l’odore di muffa viva. Lo metti in bocca e… Vai, parte la cavalcata!
La pasta è compatta, elastica, sapida, carnosa – e no: mica sono aggettivi buttati lì.
È roba che vibra, che racconta di latte, vento e mani sapienti.
Poi arriva il climax finale di piccante che ti fa strizzare gli occhi al cielo socchiusi come quando il piacere è troppo, e tu avido di sensazioni ne vuoi ancora di più…
È un formaggio strettamente da meditazione, da compagnia e che parla in solo in dialetto.
Da accostare a bottiglie serie possibilmente di rosso, non a spumantini da tre per due del discount.
Apricena: la pietra che pesa (e che parla)
Poi, il passaggio alla pietra. Apparentemente un fuori tema. Ma solo in apparenza.
Ad Apricena, ci si addentra nelle cave che scolpiscono e sventrano la terra e, a modo loro, anche le persone. Non è turismo industriale. È uno squarcio potente e inaspettato in un mondo che ha spessore. Letteralmente.
Qui non si chiacchiera di pietra: la si cava.
A colpi secchi, con rispetto, con metodo. Le pareti scavate non sono solo materia: raccontano di lavoro, pazienza e fatica, tanta.
Il colore della pietra – un chiaro caldo, quasi lunare – cambia con la luce, e ti sorprende come certi silenzi ben portati.
Un luogo sorprendente.
Ogni blocco ha già dentro il suo destino, che parte sempre da qui: dalle mani, dal sudore, da un occhio esperto.
C’è qualcosa di profondamente nobile in tutto questo: la pietra non la puoi prendere per i fondelli.
Non puoi imbellettarla con uno slogan pubblicitario. Sta lì, immobile, pesante, solenne. Eppure si muove, eccome se si muove: da Apricena è “volata” ai palazzi storici, alle piazze, alle città. La pietra di Apricena è radice e orizzonte insieme.
Questa pietra è l’esatto contrario del (cosiddetto…) cibo “instagrammabile”: non si mangia, ma si incorpora. La cava di Apricena è un antidoto potente contro il pressapochismo tattile del contemporaneo.
Ti obbliga a guardare, a stare fermo, magari a toccarla, a capire…
La degustazione che segue – vini locali impeccabili e golosi prodotti, sempre locali e ben fatti – non è una pausa, ma un necessario rituale di riconciliazione tra l’umano e il minerale ormai domo attraverso il cibo.
E… meraviglia al giorno d’oggi: sentire una pietra più viva e ciarliera di tante parole.
Masseria Pavoni: I Carrino Bros, agricoltori & allevatori veri (e ostinati)
Torno dopo più di dieci anni da una ultima e interessante visita…
La masseria pensavo di trovarla molto cambiata. E invece no. È sempre lei: una boccata d’aria pulita in mezzo al tanfo patinato di tanti scontatissimi storytelling da fiera.
Grano. Letame buono. Latte. Bestie. E uomini – anche laureati – che zappano, mungono, filano. Tutto senza proclami e senza menate, e senza greenwashing per bio-gonzi…
Qui si supera il “bio” per coerenza, non per furbizia.
Qui non si parla di sostenibilità, la si pratica. E basta.
I formaggi? La ricotta? Fatti davanti ai tuoi occhi. Mani nell’acqua bollente, gesti antichi.
La lana? Tosata a mano. Lavata sì in Toscana ma tornata indietro. E profuma ancora di pecora e terra. E va bene così. Anzi: benissimo.
E se vi state chiedendo chi siano questi eroi silenziosi, ve lo dico: si chiamano Gianfranco, Domenico e Cristoforo Carrino. Tre fratelli con la testa dura, la schiena dritta e una scelta radicale alle spalle: fare le cose come si facevano prima che iniziarono a farle male.
In un mondo agricolo sempre più addomesticato dalle esigenze di mercato, loro remano ostinatamente contro, rifiutando l’illusione di semplificare la complessità della natura.
Fanno tutto in casa, ma proprio tutto: il foraggio per gli animali, i cereali per la pasta, il latte per i formaggi, la birra agricola dai loro campi, la carne da animali allevati con rispetto e dignità.
Ogni singolo prodotto è parte di un disegno che ha il respiro dei tratturi e il ritmo delle stagioni, non quello dei quotidiani finanziari. Progetto local
Non troverete influencer da loro, né storielline da salotto.
Troverete l’odore della stalla, quello vero, e la bellezza ruvida delle mani che impastano, mungono, seminano.
Troverete la lentezza come precisa e ponderata scelta, non come becera moda.
Troverete anche tanto, tanto rispetto: per la terra, per gli animali, per chi consuma.
E… troverete anche un’idea di agricoltura che non ha bisogno di essere spiegata: basta assaggiarla. La degustazione, anche stavolta, parla chiaro: ricotta calda, caciocavallo giovane, mozzarelle filate come Dio comanda. Nessun effetto speciale, solo verità.
E tanto, tanto gusto. Progetto local
Questa è la Masseria Pavoni. Un presidio, una frontiera, una forma di resistenza. E, se avessi un cappello, me lo toglierei. Tutti i giorni.
Pranzo al ristorante-masseria Montaratro: morsi, sorsi e un groppo al cuore
Montaratro colpisce dritto allo stomaco e al cuore: sapori veri ma affatto banali, cotture giuste e zero voglia di compiacere il turista. Evviva!
Qui si mangia come si deve, tra profumi di Puglia virati alla dauna onesti e schietti come certe verità di paese e che, parlano in prevalenza in dialetto, così come il bravo chef Luigi Nardella, uno da tenere attentamente d’occhio, perché il giorno che oserà mollare il freno a mano, che ora sembra un po’ tirato nella sua pur bella e golosa cucina, saranno davvero scintille nei piatti.
Piccola notazione personale…
I vini serviti al Montaratro sono stati quelli dell’azienda Paglione – ottimi, intensi, coerenti nelle loro scelte etiche e tecniche ma, appena ho visto la prima etichetta, mi si è stretto qualcosa dentro.
Perché Paglione, per me, è Beniamino Faccilongo. Un amico, sì, ma che ci ha lasciati lo scorso anno.
Ma quel vino, il suo vino, è ancora qui. Vivo e vibrante.
E mentre lo bevo, un po’ commosso, penso che certi calici servono anche a questo: a ricordare che chi ha fatto bene resta, anche quando non c’è più.
Il bravo Nicola, suo figlio, oggi porta avanti quella visione con rispetto e gran forza.
Ma il pensiero dei calici bevuti, mi perdonerete, va tutto a Beniamino.
Eravamo diversi, molto: io caustico, impetuoso talvolta sulfureo; lui più posato, riflessivo, ma con il passo lungo di chi conosce bene la terra e le persone.
Però, avevamo in comune una cosa ormai rara: quella onestà intellettuale e pratica che non ha bisogno di esibizioni. Ci si riconosceva. E ci si stimava, davvero.
Le Mamme dei Vicoli: cuore, mani e sapere, un “asset” di incredibile valore a costo zero (o quasi…)
Il cooking-show finale con le “Mamme dei Vicoli” di Lesina è per me come un ritorno a casa.
Le conosco da anni, le ho presentate più volte in manifestazioni, e ogni volta è come la prima. Queste donne hanno una enorme forza che non si compra e non si impara.
La forza di custodire un sapere culinario antico, profondo, inossidabile e che si estrinseca tutto nella loro personalissima “unità di misura” degli ingredienti… cioè “a sentimento”.
E poi – lo dico con orgoglio – mi vogliono bene. Il che, credetemi, aiuta pure la digestione.
La laguna e il silenzio
Domenica mattina: barca, acqua calma, qualche refolo di vento, la mente in subbuglio mentre gironzoliamo per il lago Di Lesina.
Una chiusura poetica, perfetta, che riporta tutto al giusto ritmo, che resetta con dolcezza i sentimenti in un mare di luce delicata.
Conclusioni?
Nessuna… se non quella che nel lago e nel territorio dauno circostante c’è tanto, tanto da vedere, da fruire e… da mangiare.
Solo certezze (e un paio di idee).
Il progetto LOCAL non è stato un tour
È stato un atto di fede.
Nella verità. Nelle mani. Nella terra. Nei formaggi. Nelle persone e nei luoghi che resistono. Non raccontano favole, ma fanno cose, concretamente.
Altro che rural chic. Altro che “bio” di comodo.
Qui si vive, si produce e si mangia senza filtri.
E questo, oggi, è già rivoluzionario. Progetto local
Ma – e lo dico con convinzione – da queste esperienze si può e si deve ripartire.
Non solo con progetti, bandi e buone intenzioni, ma con un cambio di passo culturale.
Bisogna ridare centralità alla materia, ai luoghi e alle filiere vere.
Riportare le manualità a rango di dignità sociale.
Finirla con la plastificazione dei sapori e dei panorami e accettare che il bello – spesso – puzza un bel po’ di pecora, sa terribilmente di calcare, e si fa attendere.
Questa è la sfida.
E il Gargano, ancora una volta, ci dimostra che è possibile vincerla. Basta volerlo. E, soprattutto, basta farlo e, si deve farlo! progetto local

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?