E’ possibile che un film riesca ad essere così esplicito sulla tendenza del Fine Dining più di tanti critici gastronomici?
The Menù è una commedia satirico feroce, un po’ splatter e iperrealista sulla tendenza attuale di tanti ristoranti di alta cucina.
Non vi racconterò il film, che vi invito a vedere, ma interessante è decifrare la chiave di lettura gastronomica sul Fine Dining; oramai talmente svuotato di ogni riferimento culturale resta solo legato alla ricerca ossessiva di un qualcosa di nuovo, che nuovo non è più.
Una sceneggiata fine a se stessa che si finalizza nell’autocompiacimento personale dello chef e del ristorante stesso.
Il ristorante si sostituisce al teatro dove lo chef è regista ed attore principale, aiutato da attori non protagonisti, maitre e camerieri che interpretano parti recitate a memoria e inscenano ogni sera lo stesso spettacolo.
I commensali sono le comparse paganti fieri di far parte della performance ed uscire sazi dell’esperienza.
I commensali nel film, sono super selezionati clienti disposti a spendere 1250$ a testa per la cena, che con una imbarcazione d’epoca raggiungono una piccola isola deserta con il solo ristorante.
Chef e personale vivono isolati in un ritiro ascetico, il paragone alle comuni “religiose” è evidente e qui in una sorta di ostaggio emozionale inizierà lo spettacolo/cena.
La sensazione di rapimento da parte dello chef, ben rappresentata nel film, è simile a quella che proviamo ogniqualvolta affrontiamo una cena senza la possibilità di scelta.
Il menù degustazione prevede una tempistica propria, amministrata dal maitre e, come in uno spettacolo teatrale, non c’è possibilità: ne’ di intervenire ne’ di alcuna uscita anticipata, pena l’incomprensione totale della performance. Si cena con sussiego perché ci si crede protagonisti.
La prima portata del menù cinematografico è illuminante: l’isola, un insieme di sassi, fiori, legni dell’isola con La Capasanta pescata nel fondale; apologia del territorio, finalmente qualcuno lo doveva dire.
Quante volte abbiamo subito le litanie sul territorio?
Alimenti a Km 0, nomi e cognomi di produttori sconosciuti, raccolte notturne per garantire la turgidità e aneddoti vari a condire lo storytelling della melanzana.
Tutti gli chef che fanno buona cucina si basano su alimenti freschi, stagionali e maturati in campo.
La cucina del Mercato di Paul Bocuse è stata scritta nel 1976, e oramai è assodato che il territorio per alcuni alimenti è fondamentale.
Secondo voi perché Enrico Crippa raccoglie le verdure del proprio orto due volte al giorno per i due servizi giornalieri?
Ed ecco servita la seconda portata: pane senza pane, perché il pane è per persone comuni, dice lo chef invasato, così una serie di salse da gustare sole annunciano una delle tendenze dell’alta cucina: l’assenza di cibo, le portate diminuiscono sempre più fino ad arrivare a non esserci.
Il cibo diventa solo un rimando a quello che era
Il re è nudo. L’alta cucina e’ morta
Le portate a seguire sono sempre teatro, smoke and mirror come dicono gli inglesi, illusione e paradosso per poca sostanza.
Per fortuna esistono alcuni grandi chef rifuggono questa china e si sono dedicati ad una cucina più scapigliata e bohémien, quella dei bistrot, dove le regole sono quelle del mercato e dell’improvvisazione regalandoci emozioni e gioia da condividere.
Apripista di questa corrente fu Dominique Le Stanc, che lasciò le due stelle Michelin al Negresco per aprire il bistrot la Merenda di Nizza, ancora oggi uno dei riferimenti della bistronomie europea.
Il film The Menù è la nostra rivincita, finalmente le nostre preghiere esaudite, l’illuminazione di Paolo, il corpo e il sangue di Cristo che apre le porte del Paradiso a noi amanti della cucina che abbiamo sofferto in silenzio. L’alta cucina e’ morta
Paolo Francesco Mandelli, classe 1969, (pessima annata ) architetto e gastronomo, si occupa dei due bisogni primari dell’uomo: casa e cibo.