La scintilla, partita da alcuni bravi innovatori soprattutto a Napoli e Roma (non solo), ha invaso tutta la penisola e oltre.
Nulla di male, la pizza piace, e salvo eccezioni, è ancora un cibo “popolare”.
Evviva!
Però, con la pizzamania è anche esploso un turbinoso copia-copia di idee, per offrire ai clienti (o potenziali tali) sempre novità.
Si, il pubblico si stanca presto…
Tuttavia, e come spesso accade a chi copia, oppure per essere politically correct, “si ispira”, non si ha la più pallida idea di si cosa copia, proprio come sta accadendo per il tris di Montanare, ultimo in ordine di tempo dei gastro-tormentoni…
Prima di questo ulteriore “boom” di calorie ante-pizza, gran parte degli italiani ignorava l’esistenza della Montanara, al massimo qualcuno, collegava il nome all’omonimo canto, popolare tra gli alpini.
La Montanara che (ora) folleggia in tutte le pizzerie, è una tradizionale preparazione della scuola rosticcer-friggitoria di Napoli e qualche altra zona campana.
L’origine del nome “Montanara” è controverso.
L’ipotesi più gettonata, collega il nome ai villici che calavano a Napoli per compere e commissioni, “i montanari” appunto, vista la l’abitudine di portare nella bisaccia pani conditi con pomodoro, basilico e una spruzzata di formaggio, idea che i napoletani “cittadini” con il tempo hanno più volte rielaborato, fino ad arrivare a quella che oggi conosciamo come Montanara.
Parente alla lontana della pizza fritta ripiena, la Montanara è un disco di pasta fritta condita sopra (non all’interno!) con salsa di pomodoro (in Cilento nell’avellinese il pomodoro è soffritto con cipolla), un po’ di formaggio e una foglia di basilico, ma già dopo il secondo dopoguerra qualche rosticceria napoletana dava il via a una ulteriore evoluzione, aggiungendo a crudo un tocco di mozzarella, oltre al formaggio grattugiato.
A livello di proto-marketing, a Napoli la Montanara fa parte (e tutt’ora è) della categoria dei “cibi chiuditivi” (come la pizza a libretto), perchè con gusto e minima spesa tacita i morsi della fame di chi ha poco spendere.
Invece, nell’anno di grazia 2020 la Montanara, ridotta di taglia e trasformata in base per sfoggio di maestria gastronomica, è entrata nella famiglia degli “antipasti di pizzeria”, insieme alle patatine fritte, al crocchettone, alla frittatina, alla mozzarella in carrozza e al “cuoppo assortito” etc etc.
Il tris di montanare ha ormai raggiunto ogni più recondita pizzeria in ogni recondito angolo d’Italia (e non solo…).
Bene, nulla di male, le montanare mi piacciono e sono indissolubilmente parte del mio vissuto.
Poi, diciamocela tutta, la cucina mica è una scienza esatta, anzi, si nutre di continue evoluzioni.
Però a tutto c’è un limite…
Come quasi sempre accade, anche qui la puzza di omologazione inizia a farsi sentire.
Così, tolti tutti quelli che le usano come “base” per creare piccoli gioielli del gusto, oppure rispettano alla lettera i dettami della tradizione, molti tris di montanare lasciano a desiderare perchè…
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Chi le fa non ha proprio idea di cosa sono, e le propone solo perché “trendy”, pasticciando su tutto il fronte.
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Non propongono accostamenti sensorialmente interessanti, ma giocano solo a stupire – aspetto con ansia il tris di montanare con l’ananas… magari c’è già).
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Non sono fatti con l’impasto giusto, oscillando tra consistenze da pneumatico all’essere crocchiosamente taglienti per le gengive, oltre che grondanti olio oltremisura.
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Vengono fritti nella medesima friggitrice delle (e con…) le patatine, con il risultato di forti indizi olfattivi di tubero…
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Non utilizzano l’impasto della pizza, ma preparati industriali o semi-industriali surgelati, in certi casi precotti.
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Ciliegina sulla torta, troppi si affidano alla (saporita, eh…) scorciatoia della burrata, per poi malamente cadere per l’uso di salatissime acciughine da super-hard-hard-hard discount.
Lungi da me stilare classifiche, e senza tirare in ballo i “grandi della pizza” e tutti quelli che anche con il tris di Montanare fanno le cose per bene, resta il mare magnum delle tante pizzerie gremite di clienti smaniosi di novità.
Si, non contenti di elevare agli altari pizze buone solo come oggetto contundente, si beano e assegnano pirandelliane patenti di bontà anche a certi orrendi & dubbi tris di montanare che, meriterebbero solo di finire prima nella pattumiera della differenziata, poi in quella della storia!
Cui prodest?
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?