Di Fabio Riccio,
«Ragazzi… mi hanno portato un bel capretto intero, lo cucino e ce lo mangiamo per cena?»
Un capretto a cena?
Domanda banale, ma se posta da un cuoco (non uso di proposito la parola chef) giovane, desta meraviglia.
Perchè?
Già… perché il cuoco in oggetto, pur se giovane e a suo agio per creatività e abilità in quella che è la “Nuova cucina Italiana”, per manualità e indole lo considero uno di quelli “vecchio stile”.
Uno che se dal paesello gli portano un bel quarto di bue di fresco macellato, sa come affrontarlo, frollarlo, e coltello alla mano convertirlo in ingredienti per tanti bei piatti.
Tramutare un quarto di bue (ossa incluse) in materia per buoni piatti è una abilità che tanti cuochi, magari noti, ormai assuefatti in toto alle dinamiche della piattaforme distributive o di altri fornitori, ha perso.
Peccato…
Una delle cose positive del recente passato della cucina italiana era proprio la capacità artigianale (ma anche gustativa) dei cuochi di chiudere in proprio tutta la filiera, dalla manipolazione della materia prima al piatto finito.
Però… la cucina Italiana attuale, vista nel suo complesso e rapportata a quel che era ancora 15 – 20 anni addietro, mettendo da parte le manualità andate perse, dal punto di vista qualitativo è certamente migliorata.
Alleggerita, meditata e sfrondata, in tutti i sensi.
Su questo non ci piove.
La scintilla che ha dato il via a questa crescita, piaccia o non piaccia è stata la lezione, anzi: il vero e proprio ceffone che è arrivato dalla Nouvelle Cuisine, mediata, sdoganata e italianizzata da Gualtiero Marchesi.
Tutto, dalle cotture alla scelta della materia prima, passando per una corretta sintassi dei sapori, nel corso degli anni è stato ridisegnato, in meglio.
Montagne di inutili orpelli, senza rimpianti sono scomparsi dai piatti della cucina nostrana.
Così, i sapori, liberati dagli inutili barocchismi, sono stati riconsegnati ai due unici giudici che contano, il piacere & la piacevolezza.
Non ho nessuna nostalgia di tanti piatti anni ‘80 & ’90.
Piatti inutilmente sontuosi, arzigogolati e dai sapori tronfi, piatti che ancora intorno al duemila furoreggiavano in tanta media e medio-alta ristorazione italiana, o presunta tale. (La ristorazione “alta” per fortuna già all’epoca navigava e agiva diversamente.)
Così non mi strappo le vesti di dosso perché non vedo più in giro la gustativamente improbabile pasta alla Farouk, le pennette alla vodka, il risotto allo champagne e i vol au vent con dentro qualsiasi diavoleria.
Non ho neppure rimpianti per certe cotture fuori misura che avrebbero fatto drizzare i capelli (anche) al rimpianto Eduardo de Filippo, avvezzo al suo partenopeo ragù “pippiante per ore”.
La pattumiera della storia gastronomica è ingombra di “robe” (per fortuna) finite nel dimenticatoio, così come di certi cuochi che le proponevano.
Si, è vero: in questo primo scorcio del nuovo millennio, almeno a livello alto, in Italia non si è mai mangiato così bene, diciamocela tutta!
Però, in tutto questo trend positivo, c’è anche più di qualche “ma…” da sottolineare – l’altra faccia della medaglia –
Quello che mi sta a cuore di più, è il “ma…” della vera e propria esplosione di una “cucina” banale e massificata, che ha come base la mera immagine e la risonanza mediatica del piatto, non la costruzione dei sapori.
Una cucina in prevalenza fatte di maldestre emulazioni dei piatti dei “grandi”, fatta da un folto stuolo di modestissimi cuochetti gonfi solo del loro smisurato ego e dei “like mediatici” dalla loro personale claque, ma in realtà privi di provate capacità e, cosa più importante, del retroterra culturale dei “grandi”.
Si, lasciatemelo dire: sono davvero stufo di trovare in tanti piatti invece di sapori, solo valanghe di schiume improbabili, arie (sfiatate…) di ogni tipo, destrutturazioni di qualsiasi fatta e cotture prossime all’esoterismo.
Troppi menu sono zeppi di sedicenti e insapori “finger food”, di robette mal fritte che vorrebbero essere chissà cosa, di estrazioni di prodotti animali & vegetali fatte a temperature prossime allo zero assoluto, ma anche di inutili (gustativamente) alchimie degne solo del Conte Cagliostro o del Principe Raimondo di Sangro.
In definitiva, cose realizzate più per fotocamera e telecamera che per il palato.
Per i sensi e la piacevolezza complessiva, solo le briciole…
Queste cose, questo tipo di cucina per favore… fatela fare ai (pochi…) veri grandi. Loro sì che sanno bene con NON ammazzare i sapori, bensì come esaltarli.
I “grandi”, che in Italia da nord a sud non mancano, non sono grandi per caso…
Non sono di certo un nostalgico dei (canonici per certi…) tre etti di maccheroni nel piatto, ma farei i salti di gioia nel sapere che qualche cuoco ha iniziato a posare di nuovo i piedi per terra, uscendo (almeno per un po’) dalla bolla gastro-mediatica che prima o poi scoppierà, per ritornare un po’ di più in cucina a produrre sapori.
Veri però.
Si, c’è bisogno di tornare, almeno un po’, anche a ben destreggiarsi in cucina con un quarto di bue o con un capretto intero, ovviamente con la giusta inventiva e rispettando la sintassi del gusto.
Non c’è per forza bisogno di destrutturare, scomporre o di usare sifoni pieni di nulla per (far finta di…) creare sapori, o solo perché è di moda.
Trovo decisamente più costruttivo e gratificante proporre un bel capretto a cena…
Nel 1992 la mia prima “millefoglie scomposta” mi piacque.
All’epoca aveva una carica eversiva, e postulava una nuova grammatica dei sapori, almeno se comparata alla bolsa cucina del tempo.
Nel 2018 un cannolo siciliano (malamente…) scomposto, mi ha ispirato solo tanta noia, e la voglia di riportarlo al cuoco per farlo rimettere insieme, almeno così avrebbe avuto un qualche sapore…
E’ tempo per una parte della cucina italiana, parlo di quella considerata “media”, quella dove mangiano i tanti Italiani che in vario modo si interessano di cibo, di darsi una regolata.
In caso contrario, il treno in corsa senza controllo (ricordate la locomotiva di Guccini?) di questa pseudo-cucina Italiana, a questo punto fine solo a se stessa, non potrà che schiantarsi contro la bolla mediatica, bolla che ormai priva di contenuti reali e, cosa più importante, di sapori, prima o poi si potrebbe anche afflosciare da sola.
P.S. – Per la cronaca, il giovane cuoco che ha accortamente trasformato un capretto in una intera cena, è un tal Marcello Potente, titolare del Ristorante la Volpe e l’uva di Cupello (CH).
La Volpe e l’uva
Via XX Settembre, 33
66051 – Cupello (CH)
Tel. 0873 316631
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?