Di Stefano Capone,
Detesto l’inizio della fine delle cose che mi piacciono.
Detesto coglierne i segnali.
Mi piace terribilmente affrancarmi dalla discussione sugli argomenti che ritengo indiscutibili perché tanto “è così. E basta”.
Di alcune questioni mi consento esclusivamente un punto di vista romantico, nel senso di passione ed estremo realismo.
Serata di vino.
Il locale è quello degli entusiasmi, del bicchiere libero, dei profumi e della volatile, del pensiero e del libero preconcetto.
La compagnia è giusta.
Il tavolo non è il solito, chissà.…
Degustazione?
Mah, possiamo chiamarla anche così, ma per me questi incontri con i vini “naturali” e soprattutto con chi li produce hanno il senso della conoscenza, della condivisione, del dibattito piuttosto che di una sterile sbicchierata formale in punta di naso.
La cantina della serata è un nome piuttosto importante nel mondo del naturale.
Per una sorta di anzianità di presenze abbiamo spesso l’opportunità di condividere il tavolo con il produttore, opportunità utilissima per comprendere più da vicino questo mondo… sempre che questo mondo si voglia far comprendere.
In genere mi piace la socialità della tavolata.
Presentazioni di rito.
Qualcosa non torna.
Non c’è il produttore. Eravamo lì apposta. Molti dei presenti erano lì anche perché doveva esserci la faccia del vino che avremmo bevuto.
Si sapeva della serata da tre mesi ma improvvisi e improrogabili impegni del vignaiolo in cantina (a fine giugno…) ci consegnano alla compagnia, certamente affabile e competente, del “commerciale” dell’azienda e di una collaboratrice.
Sarà…
La cosa non mi convince.
La serata scivola incerta.
La verticale in programma di un potenziale bel bianco non decolla.
L’aria non è la solita.
Non mi sento il carbonaro di sempre.
Vorrei parlare di vino. E come me gli altri.
Vorrei fare congetture e sputare sentenze.
Afferrare aromi e immaginare colori.
Sentire storie. Di vigna e cantina. Di posa e poesia.
E invece no.
Mi rendo conto che in quel tavolo si dibatte di tutto tranne che di vino.
Vendite, numeri, distributori, prezzi…
Insomma, per cercare di capire qualcosa su chi ho davanti lascio partire una domanda, semplice, innocente… fondamentale: “Sbaglio o al Naturale di Capestrano quest’anno (e anche quelli prima) non avete partecipato?”
Sapevo di non sbagliare, ma confidavo in una risposta conciliante del tipo “eh sì, è vero. Ci sarebbe piaciuto, ma sai, con tutte le manifestazioni che ci sono non possiamo essere ovunque. Sarà per l’anno prossimo!”
E invece no!
Quello che non avrei mai voluto sentire:
“…non vale assolutamente la pena andare alle fiere! L’affitto dello stand, i pernottamenti… e poi rischi di aprire delle bottiglie che costano bei soldi per degli incompetenti che vogliono passare una domenica a bere gratis e poi non comprano niente. Preferiamo decisamente rivolgerci ai grandi distributori…”
No! Il vino “naturale” e la paura di essere liberi
È decisamente l’inizio della fine.
Ma come! Sono proprio io l’omino delle fiere col bicchiere appeso al collo!
Sono io che macino chilometri per scoprire novità e rincontrare facce familiari, per sentirmi parte di questo mondo diverso e vivo, che è vino e non solo.
Tutto torna. Il vino “naturale” e la paura di essere liberi
Il vignaiolo disdegna l’appuntamento della serata e disdegna le fiere.
Disdegna il confronto con la “base”.
Non lo ritiene economicamente proficuo.
A questo punto si pone una questione sostanziale e sostanziosa.
Soprattutto perché suppongo che il caso della cantina in questione non sia l’unico, purtroppo.
In primo luogo è evidente a tutti che il movimento del vino naturale è un movimento che nasce dal basso e dal basso viene tuttora sostenuto.
E il basso è popolato proprio dalle persone col bicchiere appeso al collo che vanno in fiera e che girano per cantine.
Che nei locali cercano e chiedono solo certi vini, in un clima che è ancora di diffidenza verso questo tipo di prodotti. Il vino “naturale” e la paura di essere liberi
E che soprattutto sperano di trovare in quella bottiglia qualcosa in più di una semplice buona bevanda.
Ovviamente a questo punto qualche luminare del luogo comune obietterà puntuale “... beh, è comprensibile. Sono comunque aziende. Alla fine il loro obiettivo è vendere”.
Osservazione incontrovertibile e inutile allo stesso tempo.
Fare quello che noi chiamiamo vino naturale è, e deve continuare a essere, tanto altro oltre che una buona e corretta pratica enologica. I
Il vino “naturale” e la paura di essere liberi.
È un modo di fare, di pensare e di rapportarsi con chi il vino lo beve.
Ha poco senso inventarsi Terre tremanti e sorgenti che stillano vino o compiacersi di essere chiamati agricoltori, artigiani e addirittura artisti se poi l’enfasi del confronto e della divulgazione non si integra come dovrebbe alle comprensibili pratiche di mercato.
Definirsi e farsi definire vignaiolo, nell’accezione che tra le pagine di questo sito intendiamo, comporta alcune responsabilità in più rispetto al semplice fare vino di tante, troppe cantine.
Svuotare questo mondo dalla carica di condivisione, di confronto e, perché no, di terragno romanticismo impoverisce anche le più pulite procedure di vigna e cantina e sposta pericolosamente tutto verso lo scialbo mondo della convenzione dove il vino non ha parole e neanche il coraggio di essere raccontato.
Il vino “naturale” e la paura di essere liberi
Stefano Capone
Chiara, dotta e comprensibilissima dissertazione sul tema.
Complimenti!
Da quasi 10 anni ho abbandonato, non senza qualche passo falso il mondo del vino “normale”.
Bevo, salvo quando in situazioni obbligate, solo naturale anche per tutte le implicazioni etiche che caratterizzano questo modo di fare vino
Però, anche io non me la sento di biasimare chi, magari anche con metodi non condivisibili cerca di fare impresa vendendo il suo prodotto.
Se poi però in una serata dedicata all’assaggio, si finisce per parlare solo di numeri, vendite e altro, pure questo non mi piace.
Da vignaiolo amatoriale, impiegato pubblico, e autoproduttore da garage di onesto barolo, in linea di massima concordo con l’autore.
Ma chi non come me, per mestiere produce vino, come già letto qui, ha l’obbligo di far tornare i conti.
Ne conseguie, che pur restando fedele a certi princìpì il vino bisogna trovare come venderlo, e anche tutto.
E se le fiere non rendono, si provano altrte strade, è normale fare così.
Le aziende che fanno vino, grandi o piccole che siano non sono enti di beneficenza. Ogni mezzo e strategia purché lecito è accettabile. Le romantiche tue lasciatele ad altri.
Risposta giusta.
Va bene la “naturalità”, ma bisogna anche vendere, altrimenti va tutto a puttane, e addio anche quel po divino buono che fanno i produttori naturali
Anche io sono uno degli “omini delle fiere con il calice al collo”.
Dal mondo del vino voglio e pretendo etica, buon vino e pulizia morale non solo business che cavalca una moda.
La faccenda è seria, e va esaminata.
Il vino “naturale” sta uscendo fuori dal suo recinto di clienti “carbonari”.
Va un po di moda.
Ora, quanto è lecito vedere il tutto dal punto di vista del business, e quanto conta l’idealismo che c’è in questo mondo.
Il dibattito è aperto.
Non dimentichiamoci che però più di una azienda di “vini naturali” pratica prezzi da strozzo assolutamente ingiustificati, talvolta pur in un ambito di ottima qualità, giustificando il tutto con l’artigianalità.
Va bene la moda, ma spendere 40 euro per una bottiglia non di annata, non di nessu “cru”, pur di certo buona, ma non memorabile, può solo far male al mondo dl vino naturale.
Il buon vino non costa poco però…
I “naturali” anche.
Dove è, e chi è la cantina oggetto dell’articolo?
Manteniamo il mondo del vino naturale nell’alveo dell’onestà, del candore per meglio dire…
Articolo eccellente nella sua semplicità.