Storie di purè
Di Stefano Capone,
Cucinare e mangiare il purè di fave secche con la misticanza di campo e un filo di olio buono è pratica periodica indispensabile per il conseguimento e il mantenimento di uno standard di pugliesità di livello superiore.
Se poi si vuole proprio alzare l’asticella, l’aggiunta di qualche acciuga salata e di bruschette di pane di semola ci proietta su performance di pugliesità prossimi alla perfezione assoluta.
È comprensibile quindi che, quando decido di preparare questa monumentale pietanza, la ricerca della materia prima giochi un ruolo per lo meno fondamentale.
Ora, sia per una questione di pura distanza geografica che per una di tipo squisitamente pratico, non riesco sempre a procurarmi le fave bianche secche delle Murge o della valle d’Itria ma, comunque, ho la certezza di trovare in terra d’Abruzzo legumi artigianali assolutamente adeguati allo scopo.
Quando, però, anche il mercato cittadino mi volta le spalle, lasciandomi solo, con un pugno di verdure miste e la mia inconsolabile voglia di purè, l’ultima, inevitabile spiaggia è la temuta, irta di pericoli, grande distribuzione.
Sì, lo so, non è poi così difficile entrare in un supermercato.
L’iter dovrebbe essere il seguente.
Prima di tutto si redige la lista. La fava secca e il canguro
Tutti i frequentatori di supermercato hanno una lista e anche io voglio la mia.
Foglietto a quadretti da block notes Pigna, strappato rigorosamente in maniera irregolare con uno spigolo mancante.
Un’unica voce: fave bianche secche.
La memoria può fare brutti scherzi.
Assodato l’obiettivo, si sale in macchina e, come da vademecum dell’utente esperto di centro commerciale, si cerca una fila di auto a cui accodarsi pazientemente.
La destinazione deve essere raggiunta in non meno di quarantacinque minuti, indipendentemente dalla distanza.
Un selfie con il cartello della corsia del parcheggio per ritrovare la macchina all’uscita e si va.
Non posso certo entrare senza il carrello. È necessario per sentirsi integrato tra le corsie.
Ho tutto. La fava secca e il canguro
Mancano solo le fave.
Ho una insana fiducia.
Sento che ci sono.
Ma dove?
Giro e rigiro. Dimostro una notevole padronanza del mezzo.
C’è sempre uno scaffale per i gastrodeliranti in cerca di fortuna.
Cerco quello. Proprio quello dove ci sono le chicche, selezionatissime e naturali della grande distribuzione.
Ecco! Lenticchie di Castelluccio! Ceci di Navelli! Fagioli di Paganica!
Dove sono? Lo sento! Fuochino! Fuoco! Fuochissimo!
Eccole! Fave bianche spezzate di Colfiorito! Cosa voglio di più.
Zona vocatissima, una vera prelibatezza.
Certe volte sono proprio malfidato.
Caro vecchio supermercato.
Sempre lì, pronto ad aiutarci, anche nei momenti più difficili.
Mi assale un improvviso senso di sollievo e mi avvio leggero verso la cassa, tronfio con il mio sacchetto di bianchi legumi al centro esatto del carrello.
La mia cena umbro-pugliese è ormai cosa fatta.
Il trionfo della regionalità. La fava secca e il canguro
Scotto le verdure e preparo il tegame per le fave.
Una patata e una cipolla ne esalteranno sapore e cremosità.
L’acqua è sul fuoco.
Devo solo aprire il sacchetto, dare un’occhiata che non ci sia qualche pietrolina e via.
Il sacchetto appunto.
Un tripudio di colori, fiori, natura incontaminata, immagini bucoliche, richiami ad amene colline, ma il mio occhio inquieto cade dove non doveva.
Sul fianco della busta trasparente una scritta leggera leggera, dove occhio umano mai avrebbe dovuto posarsi… “origine 01 – Australia”.
No, non ci credo. la fava secca e il canguro.
È troppo anche per me.
Voglio lasciarmi cadere.
L’occhio diventa lucido all’idea della cena che sfuma così, senza un perché.
L’Australia no.
Le fave Australiane sono un concetto eccessivamente ardito.
Immobile, cucchiaio di legno in mano, mille domande nella mente.
Sarà che in un momento di così profonda crisi politica, economica e sociale, il fabbisogno nazionale di fave secche è tale da non poter essere soddisfatto dalla produzione italiana ma addirittura neanche da quella del bacino del mediterraneo?
Ma poi soprattutto perché strappare una fava dell’Outback Australiano all’affetto marsupiale del suo canguro di riferimento, e costringerla, dopo aver attraversato oceani e almeno due continenti, aver sofferto di jetlag e mal di mare, essere stata imbustata a Colfiorito, a finire i suoi giorni nel piatto pieno di cicorie di un pugliese nostalgico?
Perché? La fava secca e il canguro
Stefano Capone